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venerdì 13 gennaio 2012

De Porcellibus

Licia Satirico per il Simplicissimus
Dopo giorni di indiscrezioni attendibili e timori fondati, la Corte costituzionale ha liquidato come inammissibili i due quesiti referendari sul Porcellum. La decisione, che non ravviserebbe “rilevanti aspetti di merito”, si trincera dietro problemi giuridici che per molti aspetti rievocano la questione della natura tecnica o politica dell’attuale governo: la materia elettorale è costituzionalmente obbligatoria e non ammette vuoti legislativi, mentre il difetto genetico dei quesiti bocciati sarebbe appunto quello di creare un horror vacui da colmare con lo zombie del Mattarellum. Di orrore stiamo comunque parlando: orrenda la legge suina in vigore, defunta e non recuperabile – secondo l’orientamento prevalso – la legge previgente (definita dal costituzionalista Bin come un “maggioritario con pomodoro, mozzarella e una quota proporzionale del 25%”).

Fioccano a caldo commenti intempestivi sulla prevedibilità della bocciatura, fondata sui precedenti della Corte, e sull’infelicità della formulazione dei quesiti. Dal punto di vista strettamente “tecnico”, nessuna di queste osservazioni è in realtà decisiva. Sull’ammissibilità, variamente motivata, dei referendum abrogativi in materia elettorale la Corte si era già pronunciata più volte in senso favorevole negli ultimi vent’anni: nel 1991, in merito alla preferenza uninominale alla Camera dei Deputati, nel 1995, a proposito del referendum sul sistema elettorale dei sindaci, e nel 2007, in rapporto al primo referendum proposto da Segni e Guzzetta contro il Porcellum, poi arenatosi sullo scoglio del quorum. In quell’occasione, tra l’altro, la Corte aveva formulato rilievi sull’illegittimità costituzionale della legge Calderoli, rimasti inascoltati.
 Si è detto poi che i quesiti in materia elettorale possono essere solo parziali e costruiti attraverso il metodo del “ritaglio”: dell’eliminazione, cioè, di frasi, singole parole e commi che non compromettano la continuità normativa. Uno dei due quesiti referendari era, sotto questo aspetto, senza speranza, ma l’altro “ritagliava” la reviviscenza della normativa abrogata dalla legge Calderoli. Qui però si cela l’ultima insidia “tecnica”: l’abrogazione referendaria della legge 270 del 2005 non sarebbe stata in grado di risuscitare una normativa formalmente abrogata. Nessuno ha superato questa pretestuosa obiezione meglio di Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale: “la vita o la morte di una legge non sono fenomeni biologici. Siamo noi a dover stabilire cosa accade. Nulla ci è imposto biologicamente. Sono i principi giuridici a doverci guidare” (così in un’intervista a Repubblica del 10 gennaio 2012). La legge elettorale è degli elettori prima che dello Stato: il diritto al referendum è riconosciuto e garantito dall’art. 75 della Costituzione. In assenza di ostacoli insormontabili, la Corte dovrebbe quindi orientare il giudizio di ammissibilità in senso favorevole alla consultazione popolare. Dovrebbe.

Tecnicamente o politicamente, i giudici della Consulta non hanno tenuto conto di un contesto di fatto di un milione e duecentomila firme: un fortissimo segnale civile verso il ritorno alla democrazia rappresentativa e a un sano uso “reattivo”, già imploso nello scorso giugno, dello strumento referendario. Si potrebbe replicare, a questo punto, che il compito di modificare il sistema elettorale non spetta alla Corte bensì al Parlamento. Il circolo vizioso è sotto gli occhi di tutti: il Parlamento degli eletti – in tutti i sensi – col Porcellum non ha mai sinora manifestato la volontà di modificare la legge Calderoli, preoccupandosi invece in modo scrupoloso dei problemi giudiziari dei suoi membri e, prima ancora, dell’ex premier. Né si può avere alcuna garanzia che una nuova, plausibile legge elettorale venga varata in un futuro prossimo e prima del 2013, nonostante le accorate dichiarazioni in tal senso di molti esponenti politici.

Resta un profondo senso di amarezza per l’ineluttabilità di una decisione annunciata da inquietanti fughe di notizie: qualche giorno prima della pronuncia i contrasti in seno alla Corte erano diventati di dominio pubblico, e già si conoscevano nomi e cognomi di favorevoli e contrari. Tra i contrari al referendum figuravano il duo Mazzella & Napolitano (già noto per la convivialità esuberante con padri di lodi), Giuseppe Frigo (gradito al Pdl), Paolo Grossi (nominato da Napolitano) e il presidente Quaranta (eletto dalla Corte dei Conti e non sgradito al Pdl). È alquanto strano che gli orientamenti dei singoli giudici emergano dopo le pronunzie. Lo è ancor più quando le indicazioni di voto vengono divulgate prima, tramite alcune testate giornalistiche particolarmente informate.

Vogliamo sperare che la Corte costituzionale non intenda abdicare al suo fondamentale ruolo di garanzia, né che la sua composizione sia erosa col tempo proprio dalle stesse anomalie che oggi si manifestano in Parlamento grazie al Porcellum. E non è di alcun conforto pensare che il responso sia stato il frutto di ineccepibili valutazioni di natura giuridica, come se un giurista non avesse anche cuore o cervello: summum ius, summa iniuria.

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