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martedì 17 luglio 2012

Medici corrotti per i boss finti pazzi

COSENZA – Bastavano poche migliaia di euro di mazzetta a psichiatri e psicologi corrotti e i boss della ‘ndrangheta diventavano improvvisamente pazzi. Una patologia che in più di un’occasione ha permesso a capi clan e anche a semplici affiliati ad organizzazioni criminali di lasciare il carcere duro per gli arresti domiciliari in clinica privata, gestita da medici compiacenti. Per aumentare la gravità delle patologie ai loro assistiti, i medici corrotti erano pronti anche a sostenere metodi «classici» come il dimagrimento pilotato, per aggravare appunto la loro condizione fisica e riscuotere davanti ai giudici la certezza di sottrarsi al regime carcerario. Pochi mesi e voilà, il miracolo era fatto.

LE CERTIFICAZIONI - Qualche volta con le certificazioni fasulle i boss riuscivano anche ad ottenere gli arresti domiciliari. Nell’inchiesta condotta dai carabinieri del Ros di Catanzaro guidato dal maggiore Antonio Sozzo e denominata Villa Verde (dal nome della casa di cura che ha ospitato i boss), gli inquirenti hanno accertato che in più occasioni i medici corrotti erano in doppia veste. Da una parte erano loro a certificare la falsa malattia dei boss, dall’altra toccava sempre a loro attestare la veridicità di quella patologia in qualità di periti nominati dal tribunale di Catanzaro. Nessuno mai sembra se ne sia accorto del doppio incarico, e soprattutto i medici indicati dai giudici se sono guardati bene dal rifiutare l’incarico.
GLI ARRESTI - E così martedì mattina sono finiti in carcere il professor Gabriele Quattrone, 63 anni, clinico molto affermato a Reggio Calabria, il dottor Franco Antonio Ruffolo, 58 anni, di Rogliano, il dottor Massimiliano Cardamone, 37 anni di Catanzaro e il dottor Arturo Luigi Ambrosio, 75 anni, di Castrolibero. Quest’ultimo ha ottenuto gli arresti domiciliari. Il provvedimento del gip di Catanzaro che ha accolto la tesi del procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, ha raggiunto anche due donne Caterina Rizzo, 43 anni, moglie di Antonio Forastefano, oggi pentito, ma sino a qualche mese fa a capo della famiglia degli «Zingari» che controllano la Sibaritide e Patrizia Sibarelli, 30 anni, moglie di Pasquale Forastefano, fratello di Antonio. Le accuse per i professionisti variano dalla corruzione, alla frode, alle false perizie. Un contributo alle indagini l’hanno dato oltre che le intercettazioni telefoniche e ambientali anche le dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia legati al clan Forastefano, Lucia Bariova, Salvatore Lione e Samuele Lo Vato.
I CONTATTI - Proprio per tirare fuori dalla galera Antonio Forastefano ristretto a Parma in regime di 41 bis, la moglie Caterina Rizzo si rivolse al medico Arturo Ambrosio, direttore sanitario di Villa Verde a Cosenza, che a sua volta contattò un suo amico il professor Gabriele Quattrone, noto psichiatra reggino. Quattrone però era stato nel frattempo nominato dalla Corte d’Appello di Catanzaro perito d’ufficio proprio per valutare le reali condizioni cliniche del capo degli «Zingari». La prima perizia di Quattrone non fu «soddisfacente» per Forastefano perché il professionista non accertò «l’assoluta incompatibilità col regime carcerario». Nello stesso tempo però Quattrone avvicinato dal dottor Ambrosio manifestò la sua «disponibilità» a favorire Forastefano. Servivano però 12 mila euro. Questa la richiesta che il dottor Ambrosio – che intanto si era fatto nominare perito di Forastefano insieme al dottor Ruffolo – chiese alla moglie del boss. Soldi che Caterina Rizzo puntualmente versò in due rate ad Ambrosio e a Quattrone. Il professor Quattrone non è nuovo nel panorama delle inchieste sui falsi certificati. Di lui si occupò recentemente anche la procura di Milano in merito ai rapporti con la famiglia Lampada-Valle. In particolare Quattrone firmò la perizia che fu allegata all’istanza di scarcerazione per Maria Valle. Scrive il gip Giuseppe Gennari: «La perizia del dottor Quattrone dietro toni apparentemente ineluttabili, appariva del fatto inconsistente dal punto di vista scientifico».
Carlo Macrì  (Corriere della Sera)

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