Licia Satirico per il Simplicissimus
Dopo decenni di leggi ad personam, nasce la giustizia ad aziendam: il decreto sulle liberalizzazioni approvato in Consiglio dei Ministri dota la giustizia civile italiana di sezioni specializzate in materia di impresa. Il ministro Paola Severino è particolarmente soddisfatto: la misura è utile all’economia “perché avere una giustizia celere è una grande attrattiva per le imprese, specialmente per quelle straniere”. Si scopre così che il nostro sistema giudiziario sarebbe macchinoso e anomalo, alle prese con un sovraccarico di casi su cui è obbligato a pronunciarsi. Le nuove sezioni specializzate dovrebbero invece garantire una giustizia scattante nella soluzione di controversie su know how, tutela della proprietà intellettuale e pratiche concorrenziali scorrette: una giurisdizione efficiente nelle decisioni che contano per il mercato, con palese corsia preferenziale.
L’istituzione dei tribunali d’impresa dovrebbe, per la Guardasigilli, migliorare il servizio-giustizia attraverso una più elevata qualificazione di soggetti e oggetti: giudice speciale per materia speciale. I giudici “ordinari” dovrebbero invece continuare ad occuparsi dell’immane groviglio oggi rappresentato dalla giustizia non aziendale: in base a quanto riferito dalla stessa Severino alla Camera lo scorso 17 gennaio, al 30 giugno del 2011 giacevano in Italia nove milioni di processi arretrati, di cui 5, 5 civili e 3, 4 penali. I tempi medi di definizione delle procedure sono pari a 2645 giorni per il processo civile e a 1753 per quello penale.
A essi va aggiunto l’ulteriore intasamento derivante dal numero di cause intraprese per la riparazione della lentezza dei processi e degli errori giudiziari: solo nel 2011 i procedimenti per ingiusta detenzione sono stati 2369. I penitenziari italiani pullulano di detenuti in attesa di giudizio, che ammontano al 42 per cento del totale della popolazione carceraria.
Si tratta di cifre disastrose, difficilmente compatibili con la creazione disezioni su misura per giustizie su misura. Le perplessità sono destinate a crescere se solo si pensa all’annunciato accorpamento per decreto di 674 uffici giudiziari, con un risparmio previsto di ventotto milioni di euro l’anno: “l’Italia non può permettersi oltre 2000 uffici giudiziari allocati in 3000 edifici”.
L’operazione in corso non è nuova: sono già state aziendalizzate scuola, università e sanità, con gli esiti che tutti abbiamo potuto apprezzare. Certo però non possiamo permetterci di trattare l’amministrazione della giustizia come un’azienda, gestendola con criteri improntati al risparmio di sedi e di unità di personale. In un contesto del genere la creazione di appositi tribunali d’impresa, con giudici qualificati e celeri per le esigenze del mercato, suona oltraggiosa e beffarda, dando la sensazione definitiva di una giustizia con distinti ranghi di priorità. Sfugge la ragione per cui una giustizia rapida debba essere un’attrattiva per l’impresa e non soprattutto per il cittadino, in un’epoca in cui oltretutto il falso in bilancio è un reato bagatellare e il furto di una tavoletta di cioccolata un fatto punibile fino a due anni di reclusione.
Per usare un’espressione di tendenza, il know how della giustizia dovrebbe passare innanzitutto attraverso il reclutamento di magistrati in grado di eliminare lo storico vuoto di organico di ben 1317 posti. Il ministro assicura la rapida conclusione dei concorsi già banditi e l’imminente pubblicazione di nuovi bandi, ma tace sui tempi biblici di espletamento delle selezioni (che durano in media da due a tre anni) e sulla prassi odiosa della mancata copertura di tutti i posti messi periodicamente a concorso.
Il nesso tra liberalizzazioni e tribunali d’impresa non è poi particolarmente chiaro, almeno a livello conscio: ad altro livello è invece facile pensare a un progressivo sdoganamento dell’impresa come zona franca, libera di licenziare come di deferire i suoi contenziosi a giudici ad hoc. Un’impresa che conti più del lavoratore o del cittadino di fronte allo Stato è una prospettiva deprimente. La benda della dea con la bilancia in mano cela una particolare forma di cecità cara a Saramago: la giustizia italiana guarda senza vedere, debilitata da leggi inique e carenza di mezzi.
Il nesso tra liberalizzazioni e tribunali d’impresa non è poi particolarmente chiaro, almeno a livello conscio: ad altro livello è invece facile pensare a un progressivo sdoganamento dell’impresa come zona franca, libera di licenziare come di deferire i suoi contenziosi a giudici ad hoc. Un’impresa che conti più del lavoratore o del cittadino di fronte allo Stato è una prospettiva deprimente. La benda della dea con la bilancia in mano cela una particolare forma di cecità cara a Saramago: la giustizia italiana guarda senza vedere, debilitata da leggi inique e carenza di mezzi.
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