Licia Satirico per Il Simplicissimus
Si scioglie finalmente l’arcano della sopravvivenza delle scuole pubbliche dopo i tagli da serial killer dei precedenti governi: un’inchiesta condotta da Repubblica tra i licei di dieci grandi città italiane svela che i genitori degli studenti coprono fino all’ottanta per cento delle spese scolastiche, finanziando attività ricreative, giornalini d’istituto, corsi per patenti informatiche e di guida, lezioni di inglese, gite d’istruzione, contributi assicurativi ma anche materiale di cancelleria, toner per stampanti, risme di carta e rotoli di carta igienica. L’elenco, in effetti, comprende anche i detersivi per mantenere puliti ambienti ormai privi di tutto e spesso fatiscenti, affidati alla forzosa beneficenza laica di madri e padri. La percentuale del contributo parentale varia di regione in regione: il liceo scientifico “Cannizzaro” di Roma riceve l’82,3 per cento delle proprie entrate da soggetti privati, seguito a ruota da licei di Milano e Torino. Al sud la percentuale scende in modo quasi vertiginoso: tocca il 28 per cento a Napoli e il 18 per cento a Palermo, città combattuta tra una realtà socio-economica drammatica e la naturale ritrosia isolana.
La notizia del finanziamento “privato” della pubblica istruzione non desta certo sorpresa: nell’arco di dieci anni gli stanziamenti per la scuola pubblica sono passati dai 269 milioni di euro del 2001 ai 79 del 2011, riducendosi del 71 per cento. Oggi scopriamo che il risparmio dello Stato è stato espiato dalle stesse famiglie che sopperiscono impropriamente alla latitanza del welfare e della sanità.
Cosa fare adesso? I dati utilizzati da Repubblica sono i primi frutti del progetto “scuola in chiaro”, voluto dal ministro Profumo per assicurare maggiore trasparenza negli edifici scolastici italiani. Dal punto di vista finanziario scuole e università pubbliche sono così trasparenti da essere addirittura diafane, anoressiche fino al punto di non ritorno. Dubitiamo che nella pubblica istruzione, parafrasando la Dickinson, il mistero del finanziamento sia cresciuto talmente tanto da poterlo ripudiare: da pensare, cioè, che la verità insopportabile degli oneri privati per la scuola pubblica sia diventata regola tacita in nome dei sacrifici necessari.
Stiamo assistendo perplessi ad una fase Cresci-Italia che non sembra tener conto dei reali fattori di crescita di un Paese: non bastano le liberalizzazioni per dare ossigeno a un territorio strozzato dalla crisi economica, con stipendi bloccati e pensioni miniaturizzate. L’OCSE ha denunciato più volte la nostra endemica carenza di investimenti nel settore del sapere: nel 1990 i finanziamenti all’istruzione pubblica erano pari al 5,5 per cento del Pil, mentre nel 2013 puntano al miserevole 3, 7 per cento. È una flessione che sa di declino se si aggiungono i dati ancora più sconfortanti relativi all’università, dove i fondi per la ricerca sono quasi scomparsi e i dipartimenti sono costretti a salti mortali per garantire l’ordinaria amministrazione.
È una flessione che sa di tendenza se solo si pensa ai tagli paralleli a previdenza, pubblico impiego, sanità e giustizia. Proprio pochi giorni fa il ministro Severino ha annunciato la drastica riduzione dei tribunali, con accorpamento di 674 uffici e conseguente risparmio di 28 milioni di euro l’anno: è un po’ come pensare di risolvere il problema del traffico creando un unico autobus da migliaia di posti. Lo spettro dell’accorpamento tormenta anche gli atenei e molti istituti scolastici, ma non rappresenta certo uno spettro di Banquo per governo e parlamento. L’ultimo generoso dono di Silvio Berlusconi alle scuole paritarie, incluso nel maxiemendamento alla legge di stabilità, ammontava a 242 milioni di euro. In questi tempi di sogni austeri basterebbe la stessa cifra per cominciare a ridare dignità alla scuola pubblica: un vero obolo di Stato rispetto alle sfarzose spese per l’acquisto di cacciabombardieri.
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