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lunedì 27 febbraio 2012

Ponte sullo Stretto, ora basta

Solo di progetti, burocrazia e trivellazioni è già costato 300 milioni di euro. E ormai è evidente che non si farà più, anche perché la Ue l’ha tolto dai suoi programmi. Eppure esiste ancora una società pubblica che paga stipendi e butta via risorse: chiudiamola, subito! Lettera all'Espresso.

Caro presidente Monti,
la questione del Ponte sullo Stretto di Messina si è trasformata, in quarant’anni, in una trista saga gotica. In soli tre anni un Paese povero come il Portogallo ha costruito il ponte sul Tago lungo 17,2 chilometri, il più lungo d’Europa.


Il ponte sullo Stretto, con Berlusconi e i colpevoli cedimenti della sinistra, è divenuto un simbolo araldico delle prospere sorti e progressive del Paese di Cuccagna. Gli argomenti di chi è contrario a questa impresa faraonica sono di natura tecnica, ambientale ed economica. Un gruppo di lavoro di 30 esperti e docenti universitari delle più diverse discipline ha scritto un rapporto di 245 pagine di osservazioni al progetto definitivo, che le è stato inviato lo scorso 27 novembre. Sostenuto da tutte le associazioni ambientaliste.

L’Unione europea, intanto, ha cancellato il ponte dall’elenco delle opere da finanziare entro il 2030. La Società Stretto di Messina ha ingoiato come un’idrovora, non acqua, ma oltre 200 milioni di euro secondo la Corte dei conti dal 1986 al 2008. Negli anni trascorsi da allora, seguendo accurate valutazioni, si arriva a una cifra che rasenta i 300 milioni: lo documenta l’inchiesta su “La Repubblica” di Giuseppe Baldessaro e Attilio Bolzoni. Con questo fiume di soldi si sono elaborati progetti in permanente aggiornamento, si sono fatte trivellazioni, si è creata una struttura di gestione (tecnici e burocrazia annessa) che fa impallidire il Pentagono.

Daniele Ialacqua di Legambiente questa storia “tragicomica” l’ha raccontata in un libro con acribia. L’area dello Stretto è, per plurisecolare esperienza, quella a più alto rischio, sotto il profilo sismico e geologico, del Mediterraneo. Si dice che il ponte sarebbe contributo essenziale al rilancio economico del Mezzogiorno: a mio avviso l’unica grande opera da intraprendere, non solo nel Mezzogiorno ma nell’intero Paese, è porre mano allo stato di endemico sfacelo delle montagne e delle colline, dei fiumi e delle coste, del degrado urbano ed edilizio che, con drammatica periodicità, arreca danni incalcolabili e semina vittime.

Il Paese ha bisogno di una sistematica politica del suolo e di una minuziosa protezione delle aree a rischio. Che non è solo tutela del paesaggio, ma difesa delle popolazioni che vivono in aree il cui assetto geomorfologico fa tremare appena piove o nevica. Queste opere in soccorso dell’ambiente necessitano di un programma organico: per finanziarlo si richiedono risorse ingenti, con investimenti pluriennali che riparino lentamente lo stato di decomposizione del Belpaese. A che cosa serve citare i vilipesi articoli della Costituzione? Con vantaggi per l’occupazione incomparabilmente più convenienti e necessari confronto a qualunque investimento in grandi opere infrastrutturali.

 Chiamare a progettare i servizi un archistar come Daniel Libeskind è la classica manovra diversiva. Al governo, caro Monti, non si chiede solo di bloccare l’insensata ambizione di costruire il ponte, si chiede che si avviino le necessarie procedure per sciogliere la Società Ponte di Messina a totale capitale pubblico (consociata Eurolink, con capofila Impregilo): vero vaso di Pandora, immobile e vorace, dal cui coperchio - una volta sollevato - non è prevedibile cosa potrà uscire. CESARE DE SETA

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