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venerdì 6 aprile 2012

Importazione di terzo mondo

Anna Lombroso per il Simplicissimus
È possibile che affilino le spade tra loro per poi menar fendenti mortali a noi. Ma non illudiamoci tanto alla fine stanno sempre dalla stessa parte, quella sbagliata, quella immorale, quella mortale per diritti e garanzie.

Diminuiscono per fortuna i drappelli di pretoriani che esortano a fare confronti tra i pagliacci e i macellai, in nome della discrezione appartata e schiva e del sobrio formalismo dei secondi. Che invece mostrano una sgangherata inclinazione all’esuberanza sguaiata e sfrontata, alla maleducazione offensiva e proterva, all’esibizionismo tracotante e dissennato.



Altro che formalismo, loro e i loro competitor dell’ultima ora sono i bramini dell’economia informale, se si tratta di un sistema e di un’attività che si svolge fuori da qualsiasi legge che regoli i processi di produzione, in assenza di diritti e protezioni sociali, in condizioni sanitarie e ambientali mediocri o cattive. Non vogliono un’economia “irregolare”, la vogliono proprio informale, preferiscono uno stato nel quale proprio non esista più un quadro giuridico adatto a stabilire i limiti della condizione di lavoratore occupato. La loro istanza è quella di terzo- mondializzare il lavoro e le relazioni industriali attraverso una diffusione generalizzata della precarietà e dai contratti, quando ci sono, atipici.

A chi si chieda che cosa accumuna le condizioni di oltre il 70% dei lavoratori dell’Africa sub sahariana a quelle dei nostri lavoratori cosiddetti atipici, risponde non Landini, né tantomeno Bakunin, ma l’Ilo, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che assimila ambedue all’economia informale proprio per la diminuzione quando non l’assenza, di protezione, garanzie di sicurezza, diritti.
E d’altra parte la ricerca rapace e ossessiva del massimo profitto e della massima competitività, irriguardose di qualità, “cultura” di prodotto, dignità e garanzie dei lavoratori è esemplarmente testimoniata dalla grande menzogna dei codici etici delle aziende, quelle grandi ma ormai anche quelle minori, cahiers di buone intenzioni, su cui fa spicco la prima e primaria missione: massimizzare il valore per gli azionisti, i cui interessi devono essere anteposti ad ogni altro soggetto, lavoratori, consumatori, utenti, “società”.
Ieri dicevo qui che si vuol credere che non esistano più le classi. E certo a guardare la classe dirigente si può essere legittimati a pensare che sia passata l’apocalisse senza che ce ne accorgessimo. Quella “padronale” c’è eccome. E se la classe lavoratrice sembra vivere un’eclisse attribuibile alla latitanza di organizzazioni che la rappresentino, rivendichi direttamente o svolga una pressione democratica perché anziché manomessa venga davvero attuata la Costituzione. Nell’articolo 41, minacciato, che impone che l’impresa privata non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. E all’articolo 36 che stabilisce che “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente a assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

La classe dominante muove guerre in nome della modernità e per esportare il suo pensiero forte, condannando popoli, geografie e democrazie a una regressione economica, sociale e morale. Spetta a noi riprenderci la pace, quella dell’equità, della democrazia, della solidarietà, della politica.

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