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martedì 17 aprile 2012

LA RIFLESSIONE di FABIO MAZZEO: “Il Moro”, che sapeva correre assieme al dolore

Morosini è la storia di un ragazzo che correva con la morte al suo fianco. Quella di Piermario è stata una di quelle storie che raccontata non ci credi e intanto, mentre lo dici che non ci credi, le lacrime ti riempiono gli occhi e ti bagnano il viso. Morosini ha sempre giocato a pallone. Anche mentre suo padre stava morendo per un male incurabile. Mario, lo chiamavano così, aveva 14 anni, che doveva fare se non continuare a correre per il suo sogno, anche perché gli allenatori gli dicevano che aveva talento, che lui poteva davvero sfondare. E così ha continuato a correre e giocare. Poi due anni dopo gli è morta la madre. Ma il nome di Morosini era già stampato sulle maglie dell’Atalanta, allora il miglior vivaio del calcio italiano. Lui aveva 16 anni e il suo allenatore gli disse di non fermarsi, di correre ancora, perché la mamma non c’era più ma il calciatore poteva essere il suo mestiere, anche per tenere in piedi la famiglia perché sì, c’era la famiglia anche senza papà e mamma. C’era una zia, che accudiva suo fratello e sua sorella, entrambi disabili. Col calcio “il Moro” ci sapeva fare e quando arrivò il primo contratto vero, con l’Udinese, arrivò anche la notizia che il fratello aveva deciso di farla finita, si era suicidato. Fu allora che Morosini confidò: “Non capisco perché questo dolore tutto per me. Non lo capisco e mi fa ancora più male”. Ma non si fermò. Il dolore correva con lui, un peso in più inseguendo il pallone. Sei anni in giro per l’Italia. Ritiro, allenamenti, nazionale Under 21, grandi speranze. Si, grandi speranze nonostante il dolore. E poi Anna, la sua ragazza, i progetti di una vita “perché la vita va avanti –diceva - non posso fermarmi”. Oggi l’autopsia non ha detto perché la vita lo ha fermato. Arresto cardiaco, d’accordo. Tutti ci fermiamo per quello. Cosa lo abbia determinato non si sa, l’autopsia non ha rilevato cause eclatanti. Tra una settimana il referto, giovedì il funerale. E in mezzo mille dubbi. Perché non si capisce un calcio milionario che non si attrezza di defibrillatori nei campi. Costano meno di duemila euro e per usarli correttamente basta un corso di sei ore. Lo avrebbe salvato?

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