Palermo - La sorveglianza è stata intensificata e ora il boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano non potrà tenere in cella nemmeno il fornelletto per scaldarsi i pasti. Ma sul fatto che due notti fa abbia realmente tentato il suicidio nella sua cella della sezione protetta del penitenziario di Parma sono in tanti, a cominciare dal Dap, a dubitare e a pensare piuttosto a una messinscena, se non a un segnale che ha voluto mandare a chi è fuori dal carcere.
Il più prudente è il procuratore di Palermo Francesco Messineo , che reputa «legittima» ogni lettura («sia che siamo davanti a un reale tentativo di suicidio, sia che si sia trattato di un gesto fatto per attirare l’attenzione sulla propria condizione») e che ritiene comunque quanto accaduto «una spia importante di un disagio personale, di una mancanza di equilibrio, soprattutto per un capomafia di quel livello». Ma i nuovi particolari che filtrano sull’accaduto sembrano rendere più consistente l’ipotesi della simulazione. Il boss avrebbe utilizzato una busta di plastica molto piccola, e ha scelto di infilarsela non nel bagno, dove l’immagine delle telecamere è meno nitida, ma nella stanza ripresa dal video molto più chiaramente. Ed è proprio dal monitor che controlla la sua cella che gli agenti del Gom (gruppo operativo mobile della polizia pentenziaria) lo hanno visto proprio quando si infilava il sacchetto in testa, tenendolo con le mani.
Anche il momento in cui ha agito non sembrerebbe casuale: dopo la mezzanotte, al momento del cambio di turno tra gli agenti, che sono intervenuti subito. «Chiederò alla Procura di Palermo di aprire un’inchiesta su quanto accaduto a Bernardo Provenzano in carcere», annuncia il suo legale Rosalba Di Gregorio, che aveva sollevato il dubbio di come potesse, il suo assistito in regime di 41 bis, tenere in cella un sacchetto di plastica. Nessun mistero, fanno sapere dal Dap: divieti sono previsti solo per chi manifesta forme di depressione e il capomafia – che è pure gravemente malato – sinora non aveva dato nessun segnale di questo tipo. Un appello al boss – che ieri ha rinunciato a comparire in videoconferenza a un processo davanti alla corte d’assise d’appello di Palermo per omicidio – perchè collabori con la giustizia, viene dal procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: Provenzano, per la cui morte «forse non avrei pianto», ammette Grasso, «sta per morire ma può aiutarci a risolvere dei misteri di questa Italia».
Ma c’è chi dà una divesa lettura. «È un segnale. Forse ha dato segni di cedimento e gli altri capi, il signor Totò Riina in testa, gli hanno ordinato di suicidarsi e lui non è stato in grado, o non ha voluto. Se non è andata così, si vuole pentire». L’analisi del presunto tentativo di suicidio di Bernardo Provenzano è di Francesco Marino Mannoia, il pentito che l’anno scorso, dopo una permanenza negli Stati Uniti durata vent’anni, è tornato in Italia. Dal suo rifugio segreto, l’ex superkiller di Santa Maria di Gesù traccia gli scenari possibili del gesto che Provenzano ha messo in atto nella notte tra mercoledì e giovedì, infilandosi un sacchetto in testa nel supercarcere di Parma. «Quando uno dà segni di cedimento – dice Mannoia– i capimafia danno l’ordine di uccidersi. Provenzano è uno che sa tante cose, che potrebbe dire tante cose, anche al livello della mafia e della politica. È vecchio, è stanco, ma la gente come lui deve morire in carcere.
Tuttavia i segnali di insofferenza che sta dando, i tentativi di farsi passare per malato grave e per pazzo, non sono da sottovalutare». E se le cose non fossero andate così, se cioè l’ordine – ammesso che ce ne sia stato uno – di suicidarsi non fosse mai arrivato, come del resto dovrebbe essere normale, con i rigori del 41 bis? «Allora potrebbe essere il segnale che vuole pentirsi, che vuole collaborare. In questo caso, però – secondo Mannoia– non potrebbe permettersi di dire solo le barzellette dei soliti pentiti. Da lui ci si aspetterebbe molto di più, che dicesse la verità su tanti fatti oscuri, le stragi in primo luogo. Io lo capirei subito, se lui non dicesse la verità: conosco tanti fatti che lui conosce, quindi non potrebbe ingannarmi. In questo caso vorrei essere messo a confronto con lui, davanti a una commissione Antimafia, più che davanti ai magistrati». «È strano che un capo mafia del calibro di Provenzano compia un gesto del genere, che dimostra la debolezza di un padrino», sottolinea Lirio Abbate, giornalista e scrittore, che al Salone del Libro di Torino modererà l’iniziativa «Trame di memoria» a vent’anni dalla strage di Capaci. «Se è vero che Provenzano ha tentato di togliersi la vita – aggiunge Abbate – è strano come questo malessere stia colpendo anche altri boss come Totò Riina, Pippo Calò e Tommaso Cannella, che è una delle persone più vicine a Provenzano. Non si dica – conclude – che la loro situazione è incompatibile con il regime carcerario».
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