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domenica 11 novembre 2012

Venezia, l’acqua alta è “imprevedibile”. Ma gli affari sì

Anna Lombroso per il Simplicissimus

L’acqua alta è come la mafia, non esiste. L’acqua alta è come i terremoti, non si può prevedere. L’acqua alta è come il rigore, non si può fare altrimenti che subirla. L’acqua alta è come un horror, parla di morte e lutti, ma gli spettatori si divertono.

Stamattina alle 9 e 30 l’acqua aveva toccato i 149 centimetri al mareografo di Punta della Dogana alla Salute si sperava nell’inizio della discesa della marea, visto che per qualche minuto l’acqua sembrava scendere. Ma il vento è forte e alle 10 non si notavano segnali di miglioramento. Solo ora si tira un respiro di sollievo, piano piano forse l’ondata implacabile si ritira. Ma piano piano e la gente impreparata affronta negozi e laboratori, scantinati e depositi allagati, che avevano trattenuto l’acqua di una settimana fa cui si è aggiunta questa. “Imprevedibile”, ha detto il direttore del centro maree Canestrelli allargando le braccia. “E’ il primo caso di marea così prepotente con pressione così alta a 1008. Per questo i modelli non l’hanno prevista”. E continua: “C’è uno scirocco persistente a 35 nodi che pur a fronte di una pressione non troppo bassa a 1008 millibar ha fatto salire l’acqua. E’ una situazione anomala.In Laguna la marea si spera resti sui 135 centimetri, ma in mare ci sono onde alte anche sei metri”.

Anomalia, eccezionalità, imprevedibilità, inopinabilità. Il vocabolario dei Prometeo del millennio che doveva segnare l’egemonia e il controllo dell’uomo sulla natura si colora coi termini più arcaici, dalle previsioni si sconfina nelle profezie, dalla gestione nella sorpresa, dalla ragione nella forza del destino. Ma magari si tornasse al passato quando Venezia costruiva dighe, sbarramenti, alzava argini, controllava fiumi, con una capacità di calcolo e valutazione del rischio, che oggi si sintetizza in una formula teorica e impotente, quella del principio di precauzione, inadeguata per l’ambiente quanto per l’economia. no, il laissez faire è il brand del neo liberismo, così i problemi diventano profittevoli emergenze.

Ah dimenticavo infatti, al dizionario scientifico contemporaneo bisogna aggiungere “cazzi vostri”. Il sito del comune non era aggiornato, non è stato lanciato il doveroso allarme, alcune delle sirene chissà come mai non hanno suonato. Le compagnie assicuratrici hanno alzato le orecchie, presto verranno dall’alto e da basso sollecitazioni a provvedere, a esercitare una cittadinanza attiva stipulando polizze, in fondo anche ai terremotati si è suggerito di ottemperare a questo obbligo civico e partecipato. Già adesso molti veneziani hanno fatto delle collette, si sono comprati le pompe idrauliche per liberare scantinati, negozi, laboratori dall’acqua, e presto forse faranno a loro spese la pulizia dei canali, opera fondamentale per l’equilibrio idraulico della città, che la Serenissima adempiva con teutonica puntualità ma che le amministrazioni che si sono susseguite da Manin in poi hanno invece trascurato. Non avevamo capito che il processo di privatizzazione della protezione civile significava anche questo: sono cazzi vostri, tocca a voi occuparvi della manutenzione ordinaria,. Che noi ci prendiamo quella straordinaria, le catastrofi e i disastri che abbiamo alimentato, perché è su quelli che ci si guadagna.

E infatti il MoSe che doveva salvare Venezia e la laguna dalle acqua alta è come il capitalismo, ineluttabile si direbbe, a favore della necessità del profitto e non della necessità dell’efficacia e della tutela. Faraonica macchina mangiasoldi che non sparge nemmeno una briciola del denaro e dei benefici che ricava sulla città che ormai occupa da padrone indiscusso.



Scienziati, tecnici, manager, comunicatori, consulenti – viene in mente il sistema di governo europeo – macinano relazioni, carte, indagini più o meno fasulle, bilanci più o meno affatturati come attività indispensabile all’autoconservazione, a salvaguardare il ruolo egemonico raggiunto per consolidare un azionariato, quello delle tracotanti imprese, sempre le stesse, le padrone delle grandi opere virtuali che fruttano di più se restano tali, tra multe, incarichi, studi di fattibilità remunerati come fossero realizzazioni, cannibalica occupazione di luoghi da mettere a disposizione di altri padroni altrettanto incapaci e spregiudicati, inclini all’oltraggio seriale alla città, sotto forma di outlet, torri, centri commerciali, immonde iniziative immobiliari, falansteri e condomini naviganti.

E d’altra parte il MoSe nasce con il peccato originale di tutte le cattedrali al dio cemento: anche avesse costituito una scelta ottimale per la soluzione dei problemi legati alle maree, al bradisismo, all’aumento del livello dei mari, si tratta di un progetto all’italiana, che a cascata ha imposto enormi appesantimenti e irrigidimenti dell’intera struttura, facendo lievitare a dismisura costi e tempi di realizzazione e costringendo a complicare, e dunque a rendere meno affidabile, l’architettura dell’intera macchina che dovrebbe difendere Venezia. tecnici indipendenti hanno messo in guardia da anni sulle ricadute di un “prodotto” commerciale rigido all’origine e quindi indisponibile a adattarsi a nuovi fenomeni accelerati dal cambiamento climatico, inadeguato a integrare innovazioni tecnologiche e dei materiali. Secondo loro, il risultato, se ci sarà, eserciterà un impatto devastante per l’ambiente lagunare. Nato più di 30 anni fa, non tiene assolutamente conto dell’evoluzione dell’ingegneria off shore, non prevede interventi di adeguamento in itinere per fronteggiare la radicalizzazione dei fenomeni climatici già estremi. Ma tutti i suggerimenti per la sua ottimizzazione, più che un muro di gomma, si sono scontrati con un muro di cemento armato.

In questo caso qualche previsione si è fatta, salvo quella di immaginare una possibile alternativa sostenibile: per fronteggiare il rischio di collassa mento delle paratie, si è immaginato un tunnel, come quello di Monti insomma, 12 mila pali in cemento per le fondazioni per evitare cedimenti, ciclopiche spalle di sostegno, un’isola artificiale davanti al Bacàn, una centrale elettrica da 10 mila megawatt, invasivi cantieri di costruzione a Malamocco, la conca di navigazione, il dragaggio di milioni di metri cubi di fondali, la demolizione delle dighe foranee. Mentre circola in clandestinità, come un samizdat, del quale quindi non è stata valutata l’efficienza, un progetto, più volte presentato al Consorzio Venezia Nuova e al Magistrato alle acque, molto più morbido del MoSE e capace di raggiungere i medesimi risultati, in grado di soddisfare, a differenza del MoSE, i tre prescritti requisiti di “gradualità, flessibilità e reversibilità”, e infine molto meno costoso sia in fase di costruzione (si parla di risparmi di opere e di materiali tra il 50% e il 70%) sia, e ancor di più, in fase di gestione. Si, non se ne è valutata la fattibilità e l’efficacia, perché il MoSE è un dogma.

Così si spende e si spande per affrontare i danni prevedibili di qualcosa che è stato pensato per prevenire i danni in un circuito aberrante che si avvita su se stesso, mentre la città declina, scivola in mare progressivamente e inesorabilmente, si spala via l’acqua che ritorna a cicli sempre più ravvicinati come la ripetizione seriale della storia, la leggenda funesta della fine del posto più speciale che poteva essere l’utopia realizzata della città.

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