Una mattina qualunque in una corsia d’ospedale a Palermo. Il professore entra in una delle stanze di degenza attorniato dai suoi giovani allievi. C’è un nuovo paziente: un arzillo vecchietto con gli occhi azzurri che appaiono ancora più grandi dietro le lenti da presbite. Il professore s’avvicina al letto e lo saluta. Comincia la raccolta dell’anamnesi che, come ha più volte spiegato agli allievi, rappresenta “metà di una diagnosi”.
L’anamnesi lavorativa è ricca di notizie. “Ho lavorato per molti anni al Cantiere Navale. Entrai ch’ero ancora un ragazzino con la qualifica di saldatore”. “E’ mai stato esposto all’amianto ?” chiede il professore. “Tutte le tubazioni che dovevo saldare erano rivestite da copertine in amianto fissate con il nastro adesivo. E quando svolgevo il nastro per riparare i tubi si sollevava una nuvola di polvere bianca. Dicevano tutti che ero il migliore tra i saldatori e l’ingegnere un giorno mi portò a lavorare all’estero. Ho lavorato per cinque anni in Brasile e poi in Cile e in Argentina. Ma non ho mai imparato né il portoghese, né lo spagnolo perché non era necessario: ero circondato da Italiani”. Gli allievi hanno appena appreso che ci fu un tempo in cui gli “extra-comunitari straccioni che vengono qui per rubarci il lavoro” eravamo noi.
“Passiamo all’anamnesi fisiologica e all’indagine sulle abitudini di vita” - continua il professore – “Quando ha cominciato a fumare ?”. La risposta del vecchio è un trattato di sociologia. “Quando ero ragazzino non c’erano soldi e, dalla zona di via Monte Pellegrino dove vivevo, ce ne andavamo in Corso Vittorio Emanuele a raccogliere le cicche che i signori buttavano dalle loro carrozzelle. Svolgevamo la carta e quel poco tabacco rimasto nelle cicche serviva per confezionarne di nuove che fumavamo di nascosto”. Gli allievi si guardano tra loro riflettendo sul fatto che in questa città solo pochi decenni fa ci fosse tanta miseria.
Il professore comincia la visita e scopre il paziente. Due profonde cicatrici solcano l’arto inferiore sinistro. “Questi sono i ricordi di due schegge delle bombe che i francesi lanciarono su Palermo nel Giugno 1940. La mia zona, quella del porto e del Cantiere Navale, fu tra le più bersagliate. Ma i bombardamenti più terribili furono quelli americani del maggio 1943. Gli aerei arrivavano in genere dalla parte di Capo Zafferano e si disponevano in squadriglie che tornavano a ondate successive riversando quintali di bombe sulla città indifesa. Con mia madre e i miei sei fratelli ci rifugiavamo in una grotta situata nel sottosuolo dell’attuale Mercato Ortofrutticolo nella zona ove oggi sorge un grande albergo. La vita nelle grotte era atroce e forse era per questo che una di esse era chiamata “della Condannata”. Stendevamo i fili per sostenere le coperte che servivano a dividere le “stanze” del rifugio. Mia madre ci tagliò i capelli perché il rifugio era infestato dai pidocchi. Ricordo il caldo di quei giorni di prima estate, la puzza, il prurito e soprattutto la paura per quei boati. Mia madre stava in coda per ore con la tessera in mano per ritirare la nostra razione di pane e spesso tornava a mani vuote perché suonava l’allarme e doveva scappare al rifugio o perché la milizia fascista, che presidiava i panifici, annunciava che il pane era finito”.
Le lacrime bagnano quegli occhi azzurri e le loro lenti da presbite. Gli allievi si guardano tra loro e, mentre il professore li osserva, quella che ha sempre la lacrima “in pizzo” volge lo sguardo verso la finestra. Piange ancora quel vecchio all’epilogo della sua lezione: “Ragazzi miei. Voi vivete nella bambagia, anche se non ve ne rendete conto. E ricordate di rispettare sempre i vostri vecchi che hanno fatto tanti sacrifici per consentirvi di vivere come noi neanche sognavamo di fare”.
Un silenzio che parla tantissimo scende nella stanza. Il professore, quello con i titoli che di storie come questa ne ha sentite tante, si ferma. Stringe la mano a quel vecchio e lo ringrazia: “I miei allievi hanno appreso da Lei in pochi minuti più di quanto io sarò mai in grado di insegnare loro”. La visita è finita. Il professore esce da quell’aula improvvisata e, fermandosi nel corridoio davanti alla statuetta della Madonna, dice ai suoi allievi: “Ragazzi, c’è un tesoro nascosto nei racconti di ogni anziano, basta poco per scoprirlo”. E poi continua, adattando uno dei suoi insegnamenti canonici: “Ricordate La Fattoria degli animali di Orwell ? Vi ho sempre detto che i pazienti sono tutti uguali. Ebbene, oggi avete appreso che alcuni sono più uguali degli altri”. (livesicilia)
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