Non è ben chiaro quanto valga il parere dei pazienti nel valutare la qualità dell’assistenza ricevuta. Alcuni studi sottolineano l’importanza del punto di vista del paziente, indicando anche come a una maggiore soddisfazione corrisponda poi una migliore aderenza ai trattamenti prescritti; altri studi hanno invece rilevato che la soddisfazione del paziente non è correlata alla qualità effettiva delle cure ed è anzi talvolta associata a un risultato clinico di scarso valore. La questione viene ora affrontata in un editoriale apparso sul New England Journal of Medicine, intitolato The Patient Experience and Health Outcomes, scritto da alcuni ricercatori statunitensi guidati da Matthew Manary della Duke University di Durham, nel North Carolina.
Ci sarebbero alcune significative possibilità di errore nelle misurazioni della qualità dell’assistenza ricavate dai report redatti dai pazienti. La prima è generica e forse un po’ settaria: i pazienti non hanno una formazione clinica e quindi non sarebbero in grado di dare un feedback credibile a chi li ha in cura. Anzi, spesso sarebbero portati a dare importanza a elementi della cura che non hanno nulla a vedere con la sua reale efficacia; in altre parole si farebbero facilmente abbagliare da aspetti secondari più scenografici che utili.
Un altro aspetto sollevato dai critici della partecipazione è il timore che il paziente sia soddisfatto quando ottiene quello che vuole, un certo esame diagnostico, un certo farmaco, a prescindere dalla sua reale utilità e necessità (Esami diagnostici non necessari).
Gli autori dell’editoriale, essi stessi impegnati in varie ricerche sul campo in questo ambito, sono però schierati sul versante della partecipazione, anche perché proprio gli studi sul campo hanno dimostrato che c’è una significativa corrispondenza tra gli alti livelli di soddisfazione dei pazienti e i migliori risultati clinici. Altro che lasciarsi abbagliare, sembra che i pazienti siano il più delle volte in grado di valutare adeguatamente la qualità del’assistenza sanitaria che ricevono. E invece non c’è un legame diretto tra soddisfazione e consumo delle risorse. “Diversi studi hanno dimostrato che le misurazioni dell’esperienza del paziente e del volume dei servizi consumati non sono correlati” dicono Manary e i suoi collaboratori. “Un maggior coinvolgimento dei pazienti porta a un minor utilizzo di risorse ma a una maggiore soddisfazione degli stessi pazienti”.
Secondo Susan Edgmon, direttore del John D. Stoekle Center for primary care innovation del Massachusetts General Hospital di Boston, uno dei veri problemi risiederebbe nel fatto che i clinici non amano i sondaggi in cui i pazienti esprimono i loro pareri. In un’intervista (ascoltabile sul sito dell’editoriale da chi è in grado di comprendere l’inglese), la dottoressa Edgmon indica anche nel livello di comunicazione tra infermieri e pazienti uno snodo cardine della qualità percepita dai pazienti. Più gli infermieri sono in grado di dare spiegazioni, informazioni e suggerimenti, più il paziente si sente a suo agio e pronto a collaborare. Naturalmente, perché questo elemento possa realizzarsi, bisognerebbe che gli infermieri avessero a loro volta sempre tutte le informazioni necessarie, il che non è un elemento scontato, specialmente all’interno degli ospedali. (da scire)
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