
A quell’epoca, neanche sapevo cosa fosse la trattativa Stato Mafia, ma, da avvocato di tanti carabinieri, registravo il quotidiano scempio dei loro diritti e della loro vita personale e professionale da parte di superiori forti con i deboli e deboli con i forti, ma soprattutto sordi ad ogni richiamo al buon senso ed all’umanità. I Giudici amministrativi, respingendo il 95 per cento dei ricorsi proposti contro il Ministero della difesa, dichiaravano legittimo ogni abuso, anzi condannando sonoramente alle spese di giudizio i pochi che avevano il coraggio di reagire chiedendo giustizia. Il tutto si riverberava (come pure oggi si riverbera) nell’abnorme malessere dei carabinieri sempre più inclini al gesto estremo come il suicidio.
Mi mancava, però, un tassello importante della situazione. Infatti, mi chiedevo cosa spingesse verso questo inaridimento dei rapporti gerarchici; questo clamoroso tradimento del mito dell’Arma come una grande famiglia; questa cieca e pavida soggezione degli ufficiali ad osceni ordini dall’alto; quei tradimenti dei parigrado e quell’isolamento immediato del collega caduto in disgrazia agli occhi dei superiori; quella supponente certezza che qualsiasi abuso perpetrato sui sottoposti non avrebbe ricevuto, se non in rarissimi casi, un stop giurisdizionale. In una parola: impunità.
Erano gli anni in cui, esasperato, denunciai penalmente quattro giudici amministrativi e, sebbene l’indagine fosse stata sbrigativamente archiviata (nessuno dei tredici testimoni da me indicati fu mai sentito), in tal modo – forse – cominciò a sgretolarsi il muro di gomma dei TAR e un po’ di giustizia cominciò a filtrare in quelle stanze buie.

Alla luce delle recenti scoperte, tutto ciò sembra oggi avere avuto un preciso obbiettivo, che si può comprendere con un esempio. Immaginate solo se Berlusconi avesse chiamato nottetempo per chiedere di liberare Ruby non in una questura, ma in una caserma dei Carabinieri. Credete che ne avremmo mai saputo niente e che ne sarebbe sortito un processo? Io dico di no. Tutto sarebbe filato liscio, con una telefonata del generale di turno che non ammette repliche e con l’immediata liberazione della ragazza, eventualmente accompagnata a casa con tanti riguardi. Nessuna obiezione sarebbe stata mai sollevata.
Ecco perché una trattativa con la Mafia si sarebbe potuta instaurare solo tramite i carabinieri. L’azzeramento dei diritti e della dignità dei sottoposti, infatti, consente ai vertici di impartire qualsiasi ordine, anche quello di non arrestare Provenzano, senza temere obiezioni ed intralci. E, in caso di intoppo, nessuna pietà per il militare che si fosse azzardato a fare obiezioni o, addirittura, a pretendere l’applicazione della legge. Tanto, il modo per sottoporlo a processo penale prima o poi si trova, basta aspettare e cercare. Eventualmente, anche creare.
Siamo arrivati al punto che tutti i carabinieri di buona volontà oggi non aspettano altro che di essere travasati nella Polizia di Stato con l’auspicata unificazione. Non ne possono più di ufficiali che hanno perso il senso della misura e che, con metodi ottocenteschi, premiano la codardia ed il servilismo, piuttosto che il coraggio e l’efficienza. Del resto, guardatevi intorno: vedete molti carabinieri con un sorriso in faccia?
Ora che i nodi sembrano venire al pettine, non deve più meravigliare che valorosi marescialli come Masi e Fiducia siano stati ostacolati nella ricerca dei latitanti e fatti fuori alla prima occasione.
Forse il processo della trattativa avrà l’effetto, finalmente, di suonare la marcia funebre per quella che pareva l’istituzione più amata dagli italiani, mentre invece era solo una valle di lacrime per chi ad essa ha dato la propria anima e, talvolta, anche la propria vita.
Si chiude un’epoca. Si chiuda, senza rimpianti, anche l’Arma dei carabinieri.
Di Giorgio Carta avvocato, esperto in Diritto militare e per le Forze di Polizia, Ufficiale dei Carabinieri in congedo.
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