Nel suo libro "Le mafie in movimento", Federico Varese, docente di criminologia a Oxford, scrive che, perché una nuova cosca riesca a insediarsi in un territorio lontano da quello d’origine, “è necessaria una particolare combinazione di fattori […]. È più probabile che riesca a radicarsi quando la sua presenza coincide con l’improvvisa comparsa di nuovi mercati che non vengono regolati efficacemente dalle autorità. […] Quando c’è uno sfasamento tra l’emergere della domanda di protezione e un’adeguata offerta locale, gruppi trapiantati possono cogliere l’opportunità di offrire questi servizi”. Non credo che Varese abbia visitato L’Aquila prima di scrivere il libro. Ma queste poche righe descrivono con esattezza aberrante la situazione in cui si trova il capoluogo abruzzese.
Lo ha ribadito anche Stefania Pezzopane, assessore alla cultura del Comune, nella sua lettera inviata al Presidente Monti: “sciacalli e avvoltoi cercano di lucrare sulla ricostruzione e […] si cominciano ad avvertire segni concreti di infiltrazioni mafiose e della criminalità organizzata”. Eppure, a distanza di giorni, nessuna risposta è arrivata da premier e ministri, rinchiusi nel loro imbarazzante silenzio a cercare di salvare banche e titoli di Stato. Ma a L’Aquila la ‘ndrangheta è arrivata, e ha messo le sue radici. E per estirparle non può bastare soltanto l’impegno della magistratura: c’è bisogno di attenzione e mobilitazione da parte dei media e della società civile tutta.
Il 19 dicembre scorso, la procura distrettuale antimafia di L’Aquila ha arrestato, su ordine del gip Marco Billi, quattro persone, con l’accusa di concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso. Stando all’accusa, il costruttore edile Stefano Biasini avrebbe garantito le basi logistiche al clan Caridi-Zincato-Borghetto per inserirsi nei milionari appalti privati del più grande cantiere d’Europa. Oltre all’imprenditore aquilano, sono finiti in carcere anche tre calabresi: Antonino Vincenzo Valenti, suo fratello Massimo Maria e Francesco Ielo. Secondo quanto si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, i quattro avrebbero svolto “all'Aquila e in Abruzzo attività logistica esecutiva e di supporto alle attività criminali, per acquisire in maniera diretta o indiretta il controllo e la gestione di attività economiche, così consapevolmente favorendo la penetrazione degli interessi economici criminali delle famiglie 'ndranghetiste". Secondo le indagini, la presenza di alcune cosche calabresi a L’Aquila risalirebbe addirittura al 2007. Ma è soltanto dopo il terremoto che si infittiscono i tentativi di gettarsi nell’affare faraonico della ricostruzione.
Tra tutti i clan, quello che agisce con maggiore rapidità è, appunto, quello dei Caridi-Zincato-Borghetto, decimato il 30 ottobre del 2010 al termine dell’operazione “Alta tensione”, condotta dalla Procura e dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria. Fu questa indagine a svelare il tentativo di infiltrazione nel processo della ricostruzione aquilana. Regista dell’operazione sarebbe il boss Santo Giovanni Caridi (arrestato) che, a partire dal gennaio 2010, cioè dopo nove mesi dal sisma del 6 aprile, avrebbe agito tramite un prestanome, il commercialista Carmelo Guttuso (anche lui dietro le sbarre). È proprio a quest’ultimo, infatti, che il padrino calabrese “attribuisce fittiziamente la titolarità del 50% della quota societaria della Tesi costruzioni Srl”, pur essendone lui il reale titolare. E di quella società – la cui sede è a due passi da uno dei monumenti più importanti della città, il Castello Cinquecentesco – è comproprietario proprio Stefano Biasini. Il quale si vanta al telefono con Gattuso di avere contratti per 1 milione e ottocento mila euro già approvati. E aggiunge: “L’ufficio all’Aquila è stato finito… anche quello, eh! Poi sai che serve? Importantissimo: io ho iniziato quel cantiere grande, lì al Viale della Croce Rossa (una delle vie principali del centro cittadino, ndr). E poi un’altra cosa, un’altra cosa bella, bella, eh, ho messo quasi totalmente le mani su quel… quell’appalto di quell’albergo alle 99 Cannelle (altro monumento simbolo di L’Aquila, ndr) che ti dicevo”.
Ma le società che entrano nell’affare sono addirittura 3: oltre alla Tesi srl, c’è anche la Edil B.R. (di cui è titolare lo stesso Biasini) e la Lypas. Una situazione ideale, insomma, per i calabresi desiderosi di appalti. Tanto che lo stesso Gattuso, in un’intercettazione, rassicura i suoi interlocutori: “Io poi non ti ho detto perché ora stiamo collaborando con questo ragazzo che… tre generazioni di costruttori… hanno costruito mezza L’Aquila, voglio dire che noi all’Aquila possiamo fare un buon lavoro anche come Cassa Edile, con tutto… con tutto quello che vogliamo… vedi”. E, in un’altra, ribadisce: “Lì abbiamo una buona possibilità, loro hanno belli agganci, sono conosciuti cioè hanno una bella… un bel giro voglio dire, di lavori perché, ti ripeto, hanno costruito mezza L’Aquila proprio, il nonno in particolare… sono messi bene a livello di uffici… a livello di tutto… Lui loro si chiamano… di famiglia si chiamano Biasini… Lui… quest’azienda che stanno sistemando si chiama Edilb, Edilbr, Edilbr costruzioni, però li conoscono come Biasini sia il padre che il figlio, il figlio che è un amico mio… lui ha già dei lavoretti… con una sono entrato al 50% però lì…appena posso salire… li gestirò io…”.
E da altre intercettazioni, emerge tutta la fretta spasmodica che il clan aveva di gettarsi a capofitto nell’affare. È lo stesso boss Santo Giovanni Caridi, infatti, ad intervenire in prima persona per sollecitare Massimo Maria Valenti (calabrese trapiantato a L’Aquila) a trovare un alloggio dove sistemare gli operai del loro socio Pasquale Latella. “Vedete se è libera – dice riferendosi ad una possibile soluzione – così la prendiamo subito. Informatevi stasera, e ditemelo, altrimenti dobbiamo andare a vedere di trovarne un’altra”. Stando a quanto sostengono gli inquirenti, l’abitazione per gli operai fu reperita a Scoppito, comune di 3 mila persone a dieci chilometri dal centro di L’Aquila. E la proprietaria di quella casa, tra l’altro, ha riferito di esser stata sollecitata ad ospitare quegli operai prima ancora della stipula del contratto, e di non esser ancora stata pagata.
Tutto ciò dimostra l’ansia, da parte degli indagati, di non perdere tempo per accaparrarsi gli appalti legati alla ricostruzione. Appalti estremamente appetibili per le cosche, in quanto si tratta di piccoli appalti privati, per i quali non è necessario esibire alcun certificato antimafia, e l’unica esigenza avanzata dagli ignari proprietari delle abitazioni danneggiate è la velocità nelle procedure burocratiche e l’efficienza nei lavori. Prerogative che, solitamente, la ‘ndrangheta non ha problemi a soddisfare. E poi ci sono ragioni di razionalità economica. I piccoli interventi di riparazione di alloggi privati sono di solito facilmente eseguibili, ed è possibile, dunque, portarne avanti contemporaneamente molti in varie zone della città, senza neppure l’utilizzo di grandi macchinari e la necessità di investimenti rischiosi. È per questo che L’Aquila è così ambita dalla criminalità organizzata: accordi facili e lavori veloci. Questo, infatti, era anche nei progetti dei Caridi: stando a quanto riferito dagli inquirenti, il clan si sarebbe messo preventivamente d’accordo per incassare il 30% degli introiti ottenuti dalle ditte di Biasini. Si era partiti con soli due piccoli appalti, per un fatturato complessivo di circa 200 mila euro; ma subito dopo il clan aveva allungato gli occhi su oltre dieci immobili classificati come E, cioè quelli maggiormente danneggiati e che richiedono interventi di ristrutturazione maggiori e quindi guadagni più elevati.
Questa è la drammatica soluzione in cui versa il capoluogo abruzzese, in bilico tra la paralisi perenne e la criminalità ingorda. Perché anche la lentezza pachidermica della macchina burocratica (si riesce a malapena a sbloccare una procedura a settimana, il che significa che soltanto per vedere avviati tutti i lavori di ricostruzione passeranno 19 anni) esaspera la pazienza dei molti cittadini ancora costretti vivere in sistemazioni precarie e provvisorie, e li rende molto più facilmente manipolabili da chi promette efficienza e celerità.
Scrive ancora Federico Varese nel suo libro: “L’incapacità dello Stato di tutelare i diritti di proprietà e la riluttanza a permettere le attività illecite spinge gli attori sociali a cercare fonti alternative di protezione aumentando così la domanda di mafia. In presenza di un’offerta adeguata, anche gruppi stranieri possono mettere radici in una diversa sede”. Anche questa è L’Aquila. Se lo Stato abbandona i cittadini, fa il regalo più grande alle cosche.
Gli sciacalli dell'ospedale
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