di Roberto Ciccarelli
Penultimi nella classifica Ocse per la spesa pubblica nell’istruzione (il 4,7 per cento del Pil, contro una media del 5,8). I docenti della scuola (età media 50 anni) che percepiscono un reddito decisamente più basso rispetto ad altri lavoratori con un’istruzione universitaria. Nel dodicesimo rapporto Ocse Education at a glance presentato a Parigi l’Italia si piazza al 24° posto (su 27 paesi) per gli insegnanti della primaria, al 23° per le superiori. La percentuale dei suoi laureati resta tra le più basse dell’area che riunisce i paesi più industrializzati: tra i 25 e i 64 anni sono il 15 per cento, contro una media Ocse del 31 per cento. Tutto questo mentre la disoccupazione aumenta significativamente tra i laureati (5,6 per cento), ma non tra i diplomati.
Nel paese del precariato di massa, e dei redditi sotto della soglia di povertà, l’Ocse conferma che nessuna istituzione, né tanto meno il mercato del lavoro, garantiscono ai laureati una retribuzione dignitosa, né un lavoro adeguato alla loro preparazione. È il ritratto più sincero che raramente è capitato di leggere nelle dichiarazioni dei governi in questa legislatura, per non parlare di quelle precendenti. Quella dell’esplosione della bolla formativa è una storia recente, che si può tradurre in una sola parola: fallimento.
La favola del «3+2»
Fallimento, ad esempio, della riforma Berlinguer-Zecchino del 2000 che varò il cosiddetto «3+2», tra le mirabolanti promesse della «società della conoscenza» in cui il centro-sinistra prodiano credeva fermamente. «Un’occasione mancata – l’hanno definita i tecnici Ocse – colpa anche della contrazione dei posti nella dirigenza delle pubbliche amministrazioni, che erano in passato lo sbocco privilegiato per i vostri laureati, e del boom di offerta di corsi i cui profili non trovano corrispondenza sul mercato».
Questo surplus di offerta da ridimensionare, per non creare «illusioni» tra i figli del ceto medio in crisi e senza più identità sociale, costituì l’alibi della riforma Gelmini che tagliò 350 corsi di laurea, sommergendo di discredito la classe accademica che aveva moltiplicato i pani (le cattedre) e i pesci (i concorsi). Ma ha rafforzato l’idea che per avere «successo» la formazione superiore dev’essere pagata cara, stringendo le maglie del numero chiuso (il 54 per cento dei corsi di laurea), senza per questo risolvere il problema dell’accesso alle professioni. Per fare un esempio, un terzo degli oltre 10 mila aspiranti medici che hanno superato il test di ammissione della scorsa settimana non potrà accedere alla specializzazione. E, aggiunge l’Ocse, quando riescono a trovare un posto di lavoro i laureati tra i 25 e i 34 anni guadagnano solo il 9 per cento in più dei diplomati contro il 37 per cento della media Ocse.
Saperi altamente volatili
Ma questi numeri non restituiscono la disillusione e la rabbia che serpeggiano tra chi ha frequentato negli ultimi anni un corso di studi per ritrovarsi in mano una laurea, una specializzazione o un’abilitazione (ad esempio quella delle Ssiss) che, oltre a garantire solo un impiego precario, non valgono nulla. È questa la storia dei 20 mila abilitati Ssiss che saranno obbligati a partecipare al «concorsone» per la scuola che sarà bandito il prossimo 24 settembre. Dovranno cioè ripetere una prova che hanno già sostenuto, perchè il loro esame di stato non ha alcun valore agli occhi delle istituzioni. Ripetere l’esame e verifiche nella speranza di aspirare a un posto: è la situazione in cui si trovano oggi i 20 mila abilitati costretti a partecipare al «concorsone» della scuola che verrà bandito il prossimo 24 settembre.
Il crack dell’università
Diversamente dalla bolla formativa che da tempo è esplosa in Giappone, o negli Stati Uniti, quella italiana non è basata sul debito di 24 mila dollari in media che gli studenti contraggono con lo Stato per pagarsi la laurea, bensì sulla produzione di un esiguo numero di laureati che hanno titoli di studio e competenze che hanno un valore sempre più volatile. Dovrebbe essere letta in questa cornice l’emersione del fenomeno dei giovani «Neet», il 23 per cento dei ragazzi tra i 15 e i 29 anni che «non studiano, né lavorano». Questa dizione, usata anche dall’Ocse, potrebbe essere fuorviante se non venisse adeguatamente contestualizzata. Buona parte di questi ragazzi hanno rinunciato a iscriversi all’università. Almalaurea ha calcolato che dall’inizio degli anni Duemila le iscrizioni calano al ritmo di 43 mila all’anno. Senza contare che molti di loro passano da un lavoro in nero ad uno precario. Resta sempre difficile definire statisticamente una categoria che rifiuta di continuare gli studi perchè, semplicemente, non servono. È questo il punto di non ritorno dove è giunto il fallimento dell’istruzione, in Italia.
Il rapporto dell’Ocse non dice nulla di nuovo. Sempre Almalaurea, nel suo XIII rapporto, aveva già rilevato l’aumento della disoccupazione fra i laureati triennali (dal 15 al 16%), tra gli specialistici biennali (dal 16 al 18%) e fra i laureati nei settori forti come ingegneria (dal 14 al 16,5%). Ma il lavoro dell’Ocse è importante perché è la prima rilevazione complessiva che riporta gli effetti, incontrovertibili, del taglio di 8,5 miliardi di euro alla scuola e di 1,4 miliardi all’università. Una realtà che veniva denunciata ancora ieri dall’Unione degli studenti che tornerà in piazza il prossimo 12 ottobre. (nuovosoldo)
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