di Valerio Valentini - byoblu
Ho intervistato Samanta Di Persio, scrittrice che si occupa di temi delicati: morti sul lavoro, condizioni delle carceri, scandali del terremoto a L’Aquila. Sull'Ilva di Taranto, oggi, ci racconta come tutti sapessero tutto, già da anni, perché i dati mortali erano già ampiamente noti. Ma ovviamente nessuno ha fatto niente. E ci racconta anche come lo spread che ci separa dalla Germania non sia soltanto quello sui titoli finanziari.
Buongiorno a tutti. Mi chiamo Samanta Di Persio e sono autrice di “Morti Bianche, diario dal mondo del lavoro”. È un libro che ho incominciato a scrivere nel 2007, raccogliendo testimonianze di chi purtroppo si è infortunato sul lavoro o, peggio, di familiari che raccontavano l’infortunio mortale di un parente. Nel 2007 purtroppo ci sono stati più di un milione di infortuni di cui 1300 mortali. Certo la situazione oggi è cambiata, perché è cambiato il contesto economico: oggi ci sono circa 1000 operai che muoiono, ma ci sono moltissime imprese che hanno chiuso e moltissime imprese che hanno messo i lavoratori in cassa integrazione.
Io mi sono chiesta fondamentalmente: perché si muore sul lavoro? Chi muore sul lavoro? E soprattutto: dopo una morte sul lavoro che osa succede? Cioè come continuano a vivere i familiari? C’è giustizia? Ecco, queste risposte purtroppo sono tutte negative: non c’è giustizia. E inoltre in “Morti Bianche” raccolgo già alcune testimonianze di un caso che è oggi eclatante: il caso Ilva. Raccolsi la testimonianza dei familiari di Antonino Mingolla, morto per asfissia, di Paolino Franco, morto per il crollo di una gru, e di Silvio Murri caduto da un’impalcatura. E poi ancora, forse la testimonianza più importante è quella di Cosimo Semeraro che mi racconta di come lui si è ammalato all’Ilva. Lui ha lavorato dal ’71 al 2001 ed è stato a contatto con fibre di amianto, e quindi contrasse un tumore alle vie respiratorie. Ma non soltanto lui si era ammalato: si erano ammalati anche altri operai, e riporto tra le note un’intervista di un operaio rilasciata all’Unità, che anche lui nel 2001 aveva dovuto lasciare il lavoro, quindi la fabbrica, ciò che lo sostentava, perché si era ammalato.
Quindi che all’Ilva si moriva non soltanto per infortunio, ma anche per malattia, si sapeva già da tempo. E non soltanto perché questi operai hanno cominciato una battaglia, proprio, perché poi è difficile anche il riconoscimento della malattia professionale, ma c’era uno studio epidemiologico del dottor Sante Minerba, in cui lui rendeva noto che c’era un eccesso di mortalità a Taranto negli uomini pari al 28% per il cancro al polmone, e del 460% per il cancro alla pleura, rispetto agli standard regionali. Ma ancora, già il Sole24Ore nel 2008 dava Taranto all’ultimo posto per vivibilità.
Oggi grazie alla magistratura noi sappiamo come stanno le cose: sappiamo che quella fabbrica produce morte e che purtroppo oggi i dati sono ancora più sconcertanti perché non soltanto muoiono gli operai, non soltanto muore chi abita vicino a Taranto – basta pensare al quartiere Tamburi adiacente all’Ilva: almeno un morto per ogni famiglia – ma addirittura è aumentata la mortalità nel primo anno di vita del 35% e sono aumentate del 71% le morti nel periodo perinatale. Quindi è una situazione ormai intollerabile.
Che cosa bisognerebbe fare? A Genova il reparto a caldo, appunto quello che inquinava di più, è stato chiuso. A Taranto la magistratura ha chiesto la chiusura, ma poi il governo ha deciso invece di mantenere l’apertura della fabbrica. Ad un certo punto bisogna prendere delle decisioni. Queste decisioni possono essere anche impopolari, perché sì, è vero che il lavoro è indispensabile, ma è indispensabile anche la salute, perché ci sono testimonianze dei lavoratori che hanno dovuto lasciare il lavoro quando si sono ammalati.
Si potrebbe prendere ad esempio la Germania, perché anche la Germania ad un certo punto ha dovuto fare una scelta. La scelta è stata quella di bonificare il bacino industriale della Ruhr, e questa scelta ha portato poi lavoro, perché non significa non dare più lavoro, ma significa continuare a lavorare, e oggi circa 3 milioni di persone ogni anno appunto vanno in visita a quello che c’è oggi, quindi questo polo funzionale, questo parco, e si continua a vivere, quindi a dare la possibilità di lavoro e di vivere.
Quindi questa dovrebbe essere la soluzione anche per Taranto, soprattutto perché oggi ha un costo, comunque, la sanità ha un costo, e non possiamo più pensare che questo costo a un certo punto da pubblico diventa privato e quindi i cittadini che hanno i soldi potranno curarsi e i cittadini che non li hanno non potranno farlo.
Io mi sono chiesta fondamentalmente: perché si muore sul lavoro? Chi muore sul lavoro? E soprattutto: dopo una morte sul lavoro che osa succede? Cioè come continuano a vivere i familiari? C’è giustizia? Ecco, queste risposte purtroppo sono tutte negative: non c’è giustizia. E inoltre in “Morti Bianche” raccolgo già alcune testimonianze di un caso che è oggi eclatante: il caso Ilva. Raccolsi la testimonianza dei familiari di Antonino Mingolla, morto per asfissia, di Paolino Franco, morto per il crollo di una gru, e di Silvio Murri caduto da un’impalcatura. E poi ancora, forse la testimonianza più importante è quella di Cosimo Semeraro che mi racconta di come lui si è ammalato all’Ilva. Lui ha lavorato dal ’71 al 2001 ed è stato a contatto con fibre di amianto, e quindi contrasse un tumore alle vie respiratorie. Ma non soltanto lui si era ammalato: si erano ammalati anche altri operai, e riporto tra le note un’intervista di un operaio rilasciata all’Unità, che anche lui nel 2001 aveva dovuto lasciare il lavoro, quindi la fabbrica, ciò che lo sostentava, perché si era ammalato.
Quindi che all’Ilva si moriva non soltanto per infortunio, ma anche per malattia, si sapeva già da tempo. E non soltanto perché questi operai hanno cominciato una battaglia, proprio, perché poi è difficile anche il riconoscimento della malattia professionale, ma c’era uno studio epidemiologico del dottor Sante Minerba, in cui lui rendeva noto che c’era un eccesso di mortalità a Taranto negli uomini pari al 28% per il cancro al polmone, e del 460% per il cancro alla pleura, rispetto agli standard regionali. Ma ancora, già il Sole24Ore nel 2008 dava Taranto all’ultimo posto per vivibilità.
Oggi grazie alla magistratura noi sappiamo come stanno le cose: sappiamo che quella fabbrica produce morte e che purtroppo oggi i dati sono ancora più sconcertanti perché non soltanto muoiono gli operai, non soltanto muore chi abita vicino a Taranto – basta pensare al quartiere Tamburi adiacente all’Ilva: almeno un morto per ogni famiglia – ma addirittura è aumentata la mortalità nel primo anno di vita del 35% e sono aumentate del 71% le morti nel periodo perinatale. Quindi è una situazione ormai intollerabile.
Che cosa bisognerebbe fare? A Genova il reparto a caldo, appunto quello che inquinava di più, è stato chiuso. A Taranto la magistratura ha chiesto la chiusura, ma poi il governo ha deciso invece di mantenere l’apertura della fabbrica. Ad un certo punto bisogna prendere delle decisioni. Queste decisioni possono essere anche impopolari, perché sì, è vero che il lavoro è indispensabile, ma è indispensabile anche la salute, perché ci sono testimonianze dei lavoratori che hanno dovuto lasciare il lavoro quando si sono ammalati.
Si potrebbe prendere ad esempio la Germania, perché anche la Germania ad un certo punto ha dovuto fare una scelta. La scelta è stata quella di bonificare il bacino industriale della Ruhr, e questa scelta ha portato poi lavoro, perché non significa non dare più lavoro, ma significa continuare a lavorare, e oggi circa 3 milioni di persone ogni anno appunto vanno in visita a quello che c’è oggi, quindi questo polo funzionale, questo parco, e si continua a vivere, quindi a dare la possibilità di lavoro e di vivere.
Quindi questa dovrebbe essere la soluzione anche per Taranto, soprattutto perché oggi ha un costo, comunque, la sanità ha un costo, e non possiamo più pensare che questo costo a un certo punto da pubblico diventa privato e quindi i cittadini che hanno i soldi potranno curarsi e i cittadini che non li hanno non potranno farlo.
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