Anna Lombroso per il Simplicissimus
Se per caso si sentivano “prestati” alla politica, la politica farebbe meglio a restituirli, a rimandarli al mittente: risparmieremmo la mortificazione di correre il rischio di essere rappresentati da creature a un tempo mediocri e superbe, ignave ma affaccendate nei cantieri dell’assoggettamento nei confronti di padroni dei quali riconoscono la superiorità tanto da voler loro assomigliare anche somaticamente e da desiderare che tutti siano conformi ai loro modelli.
Si spiega così la richiesta di Ichino, Albertini e Mauro di avere a disposizione un agile manualetto che indottrini a un corretto comportamento elettorale i candidati lombardi della lista Monti. Sono stati subito accontentati così una società specializzata ha messo a punto 15 paginette rivolte ai “saliti” in politica, con utili suggerimenti e preziose raccomandazioni diventare uomini di mondo, per affrontare le sfide e i trabocchetti, dalle interviste alla raccolta dei finanziamenti, dall’abbigliamento al public speacking, che deve ispirarsi sempre alla semplicità, come se ci si rivolgesse a un elettore “bambino” da ammaestrare e persuadere per il suo stesso bene. ...
In premessa ci sono tutti i “topoi” della cultura di regime: “la politica nuova passa dalla trasparenza e dalla sobrietà. I tempi della politica dell’immagine sono finiti per sempre. Oggi contano i contenuti, l’impegno civico, la rendicontazione e l’ascolto”. A far correre i brividi giù per la schiena non è solo per il poco accorto invito alla sobrietà, che per quelli che stanno giù significa miseria e rinuncia a garanzie e diritti, nemmeno per la “rendicontazione” che ha l’effetto di ricordarci tecniche da revisori dei conti e ragionieri, e neanche per la divina soprannaturale ipocrisia che da sempre intride come un veleno la comunicazione dell’attuale ceto dirigente, predicare bene e razzolare male, annunciare e smentirsi. No, l’aspetto più osceno, per usare una parola cara anche al loro manager di riferimento, è la supponenza di costituire un modello di comportamenti, atteggiamenti, costumi e morale cui sarebbe opportuno uniformarsi, conformarsi, adeguarsi, “Si presuppone che i nostri candidati siano più trasparenti e puntuali degli altri”, spiegano gli autori del pamphlet. “Si è voluto chiarire come fare un manifesto o un volantino elettorale, il classico “santino”.
Poi il training su come comportarsi con i media: essere cortesi con tutti i giornalisti, rispondere a tutti e trattarli tutti allo stesso modo, dalla stampa locale ai grandi network”. E che abiti usare, trucco naturale, pochi gioielli, niente esibizioni: la pedagogia di governo che vuole imporci come vivere e morire, con chi sposarci e chi amare, come spendere e di cosa privarci, si dota anche di un bon ton, di una “etichetta”, improntata a una buona educazione che coincide perfettamente con le convenzioni. Se con il suo berciare inarticolato Grillo strilla che bisogna eliminare i sindacati, loro, che sono uomini e donne di sostanza, scelgono quali comprarsi e tenersi e quali emarginare fino alla loro scomparsa con garbato e solerte aiuto di chi i lavoratori dovrebbe rappresentarli nelle aule parlamentari e nella società.
Secondo il manuale, la gente giudicherà il messaggero prima del messaggio. È che per loro le due aspirazioni coincidono, il messaggio è quello di persuadere che questa scrematura di classe dirigente è il meglio che ci possa capitare, che è augurabile annettersi, fidelizzarsi e mimetizzarsi nei loro abiti, nelle loro voci e nei loro slogan, quelli degli auto-proclamati “salvatori”, che l’unico peccato permesso a noi peccatori è quello di wishful thinking: credo perché spero.
Abbiamo ben altro in cui credere e sperare, piuttosto che in tutto questo bon ton che cela avidità illimitata, arroganza smisurata, invincibile superbia. Una superbia che deve uscire non vulnerata dal volgo, non toccata dai mortali.
Eppure basterebbe un bambino che rivestisse di ridicolo l’imperatore nudo, che la superbia è un vizio miope che non fa vedere voragini e abissi che lo scherno può aprire e cui sfugge l’alta percentuale di fortuna presente in ogni successo. Anzi la fortuna stessa è intesa dal superbo come merito personale, un additivo erogato in virtù delle sue qualità di intelligenza, fiuto, prestanza, determinazione, quelle doti che possiede e coltiva. Questa compattezza monolitica gli fa rimuovere il rischio che comporta, invidia o indignazione, rancore o ribellione: la superbia di dogi, papi, faraoni, condottieri era un vizio “alto”, a dimensione eroica. Mentre ora si sviluppa nel miserabile esercizio di mortificare gli altri, di avvilire le loro aspirazioni, di imbruttire la loro bellezza.
Le loro buone maniere sono l’apparenza della loro inciviltà.
Non occorre essere Norbert Elias per capirlo, sono ispirati dalla recessione, economica e morale, dalla civilizzazione. Si collocano ben bene nella più cupa era feudale, quando la “nobiltà” dei pochi, la superiorità dei padroni era segnata dalla ferocia, quando la propensione era per la crudele arte della guerra, quando la mutilazione dei prigionieri doveva essere un “raro piacere”, quando la sopraffazione era necessaria per sancire l’altera preminenza dei potenti.
Certo sanno stare a tavola, nutrono ripugnanza per quanto è corporeo, i bisogni sembrano loro meschini, non ama parlare di fame chi ha la pancia piena. E allora armiamoci della nostra maleducazione e il nostro noi sguaiate e libero abbatta l’idolo del loro super-io.
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