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domenica 26 febbraio 2012

La vittoria dei corruttori



La scala della corruzione: più in paese è in basso, maggiore è il suo livello di corruzione
Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ancora una volta ha vinto, ha stravinto. Ogni tanto qualche supponente ci impartisce delle lezioni sulla natura della democrazia. L’approccio è lo stesso che applicano al mercato e al capitale: le aberrazioni sono ineluttabili e inevitabili, è necessario piegarsi alla necessità, affidarsi a gente pratica che se ne intende, pochi ma buoni a trattare materie delicate come il profitto, la rappresentanza, la politica, i diritti. E se qualche volta non vanno troppo per il sottile, l’importante è il risultato, come se le ferite inferte al corpo ancora giovane della democrazia non fossero inguaribili.


Come per i soldi sarebbe dunque cosa buona affidarsi a una scrematura delle società, un’oligarchia.

L´oligarchia non è però l´élite. L´oligarchia è semmai l´élite che si fa corpo separato ed espropria i grandi numeri sacrificando la cittadinanza a proprio vantaggio. Trasforma la res publica, in res privatae. Ma siccome questa è una patente contraddizione rispetto ai principi della democrazia, queste oligarchie imparano presto a essere opache a essere occulte e a loro volta a nascondere il loro occultamento mediante un’esuberanza di esibizioni pubbliche.

La democrazia allora si dimostra così il regime dell´illusione, che persuade che il più maligno dei sistemi politici è il più benevolo e benigno: il “principio maggioritario”, che è l´essenza della democrazia, si rovescia infatti nel “principio minoritario”, che è l´essenza dell´autocrazia: un´autocrazia che si appoggia su grandi numeri, ma pur sempre un´autocrazia e, per questo, ancora più pericolosa.

Ha vinto. Chi detiene il potere, se non incontra limiti, è portato ad abusarne. Le oligarchie del nostro tempo non incontrano altri limiti se non quelli rappresentati da altre oligarchie. Ma l´abuso è anche una tendenza “necessaria”, perché i regimi dei pochi sono incompatibili con la legalità uguale per tutti. Le oligarchie hanno bisogno di privilegi, cioè di leggi speciali che valgono solo per loro, diverse da quelle che valgono per tutti gli altri. O, quanto meno, hanno bisogno che le leggi generali e astratte siano interpretate e applicate a loro in modo tale da non contraddire l´esistenza dell´oligarchia stessa. Ciò che occorre loro è una “giustizia dei pari”, diversa da quella comune; un “foro speciale” non di giudici imparziali, ma di giudici amici.

Ha vinto: l’effetto del regime berlusconiano è stato potente. Perché ha convinto con i suoi poderosi mezzi mediatici così persuasivi che in quella res privatae potessero riverberare benefici per tutti, ribaltando l’amoralità in accettabile, anzi desiderabile costume esemplare e corretto, se diventa generale, condiviso e comune.

Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è – parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne – questa complicità degli oppressi con l´oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole, se non “servitù volontaria”?

Aveva già vinto e continua a vincere quella oligarchia se in regime di servitù ci ha convinti di non essere mai stati così liberi, liberi di consumare, liberi di prenderci delle licenze alle regole, liberi di trasgredire in nome di interessi personali, liberi di approfittare di rendite di posizione in mancanza di garanzie conquistate, liberi di sostituire allo stato di diritto un contro-stato di privilegio.

Il governo del malaffare ha raggiunto l’obiettivo di innalzare la soglia di tolleranza dell’illegittimità e dell’illegalità, ha fatto della corruzione l’impalcatura sulla quale si sono retti i processi decisionali, le procedure amministrative, le attività economiche, così come l’accesso ai sevizi sociali, il posto di lavoro, la promozione a scuola, il concorso pubblico.

Ha vinto perché le sue dimissioni, un gesto da statista si è detto, non hanno certo concluso la sua era. E nemmeno spazzato o liquefatto la sua concezione del mondo e della politica, che si colloca bene e coerentemente nell’ideologia che muove chi oggi è al governo. E che partecipa dell’erosione della sovranità dello stato e del popolo, a beneficio del mercato e del profitto, che impoverisce i beni pubblici a favore di quelli privati, che limita i diritti in modo che diventino privilegi di pochi, che impone una flessibilità che altro non è che incertezza, arbitrarietà e discrezionalità, che trasforma il conflitto di interesse in un licenza appannaggio di un ceto potente che non può essere messo in discussione, che traveste la sordità alla nostra voce in virtù necessaria per controllare una plebaglia oziosa e riottosa.

Il silenzio del governo sulla sentenza di ieri, la balbettante rivendicazione del partito diversamente al governo e diversamente critico, ma ugualmente asservito a smettere di pensare a Berlusconi per pensare a noi stessi, la dicono lunga. Sugli uni e sugli altri. Sulla necessità improrogabile di riprenderci la voce e l’azione, riappropriandoci del controllo sulle loro decisioni e del mandato che abbiamo concesso solo ad alcuni di loro. Che la società torni ad essere civile.

Hanno vinto. Dimostrandoci che sono tutti uguali, una prove alla quale molti di noi non volevano credere. Per persuaderci del contrario comincino a combattere il nemico in casa che ha ancora una volta avuto la meglio. Cominciamo con il reclamare poche cose, ma significative: gli piace tanto la ragioneria adottino la vera trasparenza dei flussi contabili, punendo le opacità dei flussi contabili e ristabilendo quello che la legge Berlusconi del 2002 ha eliminato di fatto, depenalizzando il falso in bilancio quantitativo. Riformino ma con decisione il diritto penale tributario: le soglie quantitative di evasione non penalmente rilevante sono assurdamente alte, decine di migliaia di euro sfuggono al controllo penale. Applicando un regime di trasparenza dei flussi finanziari. Sono fan dell’Europa: istituiscano anche da noi il reato di autoriciclaggio, peraltro previsto dalla Convenzione di Strasburgo. Organismi e convenzioni internazionali insistono nel pretendere dagli Stati una capacità organizzativa degli organi preposti perché siano in grado di combattere efficacemente la criminalità economica. Si lavori per l’enforcement, per il coordinamento di Forze dell’ordine, Agenzia delle Entrate, Consob, Banca d’Italia e Uif (l’ufficio informazione finanziaria di Bankitalia), come d’altra parte raccomanda invano l’Ocse. Si proclamano integerrimi: combattano sul campo la corruzione privata come è previsto dalla Convenzione di Strasburgo e che solo noi non puniamo come reato.

L’Europa di due pesi due misure e due morali in Grecia come da noi non annovera tra le misure necessarie per essere annessi al suo contesto la lotta alla corruzione e all’evasione. Sarà perché la danno per scontata? O perché per loro non conta? O perché lede interessi peraltro ben identificabili, quelli che circolano senza frontiere e senza confini, mentre per i cittadini si alzano muri invalicabili e nuovi reticolati?
I delinquenti al Parlamento italiano

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