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sabato 10 marzo 2012

Cassazione alla siciliana

Licia Satirico per il Simplicissimus
Ragionevoli dubbi. Se è ragionevole il dubbio che ha portato la quinta sezione penale della Cassazione ad annullare la seconda condanna di Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, il nostro non è certamente irrazionale e neppure tecnico. È un dilemma di altro tipo, che assume consistenza grumosa e indigeribile. Il diritto nella sua plastica evanescenza, manipolato e interpretato in modi radicalmente diversi, tocca appena in parte una vicenda sul cui sfondo si staglia il rapporto ambiguo tra Stato e antistato. Quella di Dell’Utri è una tela di ragno legata ad anni bui della storia recente: alla graduale trasformazione di imputati in deputati, “vittime” di una giustizia che si rivela davvero fallimentare se tutto, dopo sedici anni, è da rimettere in discussione con un nuovo processo.



Hemingway scriveva che non si deve giudicare un uomo per le sue amicizie, perché Giuda frequentava persone irreprensibili. Dell’Utri non è certamente Giuda, e infatti le persone che frequenta, a cominciare dal presidente del Pdl e cofondatore di Forza Italia, sono reprensibili. Tutto nella storia del palermitano di Publitalia sa di oscura contiguità. Contiguità con lo stalliere di Arcore Vittorio Mangano: per Dell’Utri e Berlusconi un eroe, per Paolo Borsellino “una delle teste di ponte dell’organizzazione mafiosa del Nord Italia”, per le agenzie di stampa “vicino alla mafia” con lo stesso eufemismo che si riserva alle relazioni sentimentali imbarazzanti. Contiguità con il boss Tanino Cinà, grazie al quale Dell’Utri intratteneva rapporti cordiali con personaggi del calibro – in tutti i sensi – di Stefano Bontade, Gaetano Grado e Mimmo Teresi. Dell’Utri non ha mai negato le sue relazioni pericolose, sostenendo di non sapere che si trattasse di mafiosi: mafiosità colposa, ancora una volta ad insaputa dell’interessato. Era una cosa innocente: mangiate, bevute, qualche matrimonio. D’altronde, proprio ieri si è detto in aula che essere il referente politico di Cosa Nostra non significa nulla.

I sofismi hanno caratterizzato anche l’esito dei processi. I giudici della corte d’appello di Palermo, nel confermare – riducendola – la condanna di primo grado, avevano sostenuto una tesi curiosa: il senatore Pdl avrebbe sì intrattenuto “contatti” con le vecchie organizzazioni mafiose di Bontade, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, ma solo fino al 1992. Dopo quella data Dell’Utri avrebbe rigato dritto, restando sostanzialmente estraneo alla cointeressenza Stato-mafia denunciata sia dal pentito Gaspare Spatuzza che da Massimo Ciancimino: quella che avrebbe determinato le stragi di Capaci e di via D’Amelio e la genesi politica di Forza Italia.
Ora siamo noi a sentirci “spatuzzati” dalla soddisfazione dell’avvocato Krogh (nome da divinità mesopotamica), dai dubbi – anche questi ragionevoli – sulla composizione del collegio giudicante, dalle dichiarazioni a caldo di Bondi, di Angelino Alfano e persino del Pd. L’aedo rievoca le atroci sofferenze patite dal senatore, il delfino privo di quid invita Marcello Dell’Utri ad andare avanti e a “tener duro”, mentre il deragliante partito di ex opposizione elogia il garantismo della giustizia italiana. Spatuzzanti sono soprattutto le parole del procuratore generale della Cassazione Francesco Iacoviello: “nessun imputato deve avere più diritti degli altri, ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri”. I diritti di Dell’Utri sarebbero stati violati e nessuno può restare insensibile a tanto.

Non ci sembra, francamente, che il senatore Dell’Utri abbia avuto meno diritti degli altri. Semmai è l’esatto contrario: Dell’Utri fa parte degli eletti che hanno avuto più diritti degli altri. Si è difeso efficacemente e con valenti avvocati, al punto da trionfare in Cassazione. Ha avuto un partito, da lui stesso fondato, che lo ha protetto da sgradevoli limitazioni della libertà personale, trasformandolo in un’icona delle storture da magistratura a delinquere. È lo stesso partito che si preoccupa affettuosamente di alcuni imputati, che cambia la legge quando non si può cambiare il processo, che invoca ringhioso da anni una riforma miniaturizzante della giustizia. Certo, rispetto a Berlusconi Dell’Utri non pretende di fornire giustificazioni nobili alla sua discesa in campo: nel 2010 disse “sono politico per legittima difesa. A me della politica non frega niente”.
A noi interessa. A prescindere dal seguito delle vicende giudiziarie del senatore Dell’Utri, che immaginiamo segnate dal delicato confine tra verità processuali e verità inconfessabili, ci auguriamo che i tempi della giustizia italiana e l’incombenza fatale della prescrizione inducano il senatore Dell’Utri a tornare a occuparsi al più presto di arte, storia e letteratura (dai falsi diari del duce ai falsi scritti di Pasolini). Ci auguriamo che il parlamento venga restituito agli incensurati o, quanto meno, a quelli che ancora pensano che la politica sia fatta di etica, di rispetto e di legalità. A quelli che sperano di vedere eletti i loro rappresentanti perché al di sopra di ogni sospetto e non perché invischiati nel sospetto. O anche solo nei ragionevoli dubbi.

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