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martedì 24 luglio 2012

Roma capoccia der monno infame: debito più alto della Sicilia

Anna Lombroso per il Simplicissimus
Chissà che cosa potrà produrre l’incontro al vertice di oggi delle due cariche e competenze, Presidente del Consiglio e Presidente della regione Sicilia. Il tema è il rischio di fallimento della regione Sicilia a causa di un debito consolidato di 17 miliardi: l’isola ho poco più di 5 milioni di abitanti. Su ogni siciliano – neonati compresi – grava un onere di 3.400 euro ciascuno e il fardello di una classe politica imbarazzante, di alleanze opache, di “pupari” potenti e inossidabili.

Ma si dice proprio a Roma, “er più pulito c’ha la rogna” e la Capitale ha 11 miliardi di debito consolidato che arriva a 15 miliardi se si aggiunge quello delle municipalizzate, quello attribuibile agli espropri per opere pubbliche non perfezionati. Se su ogni “civis” –siamo circa 2 milioni e 600 mila abitanti – neonati compresi, pesa un debito di 5.800 euro ciascuno, si può dire che Roma è proprio la capitale della bancarotta. E la “rogna” è la stessa: quella combinazione di malaffare, clientelismo, corruzione e incompetenza nella quale si infiltra e stabilisce la sua potente egemonia la criminalità, accomodandosi con pochi rischi nei rigonfiamento degli organici delle istituzioni pubbliche, delle società controllate, degli appalti e della spesa per opere spesso inutili o che restano allo stato progettuale, quelle delle buone o cattive intenzioni.
Conosciamo la patologia di Monti, per la Sicilia, la Catalogna de noantri, starà pensando all’abituale purga di tagli, rigore ottuso, austerità idiota da somministrare nel solito modo casuale e prudente nei confronti di obiettivi intoccabili e sgraditi. Ancora più miope se la dovessimo attagliare alla capitale il cui debito è solo in parte attribuibile all’alimentazione aberrante della macchina della pubblica amministrazione, anche e soprattutto grazie alla miscela di clientelismo, corruzione e impunità, molto all’incompetenza degli eletti, nominati, incaricati e tecnici, moltissimo a un modello urbano fondato su una espansione urbanistica e edilizia incontrollata, con “periferie che generano altre periferie sempre più lontane e costringono l’amministrazione comunale ad indebitarsi per portare servizi, trasporti, strade e per la quotidiana gestione”, come denunciano da anni esperti e studiosi e come ogni giorno accertano a caro prezzo i cittadini. Un “modello” oltraggioso dei beni comuni, con risorse disinvoltamente e protervamente messe in vendita, del territorio oggetto di vincoli di tutela occasionali ed estemporanei come spilli messi a caso su una mappa della città, dei suoli sottoposti a acrobatici cambi di destinazione d’uso, sconcertanti perfino per l’associazione dei costruttori, che aveva chiesto l’1 % del territorio da destinare a area edificabile, mentre Alemanno ne elargisce benevolmente quasi il 2 %.



Ed è un modello favorito dal primo provvedimento approvato dall’attuale governo, un frutto avvelenato per i cittadini e un sontuoso regalo ad personam per il sindaco fascista, quella legge per Roma Capitale, che affida al Campidoglio oltre a un potere straordinario sulla città, funzioni nella valorizzazione e nella tutela dei Beni Culturali. In modo che a dispetto delle leggi e della Costituzione repubblicana, il sindaco oltre che sulla città possa allungare le mani anche sull’archeologia, l’arte, i monumenti, il nostro patrimonio più importante e prezioso, mediante organismi le cui competenze identificate “ai fini del rilascio di titoli autorizzatori, nulla osta e pareri preventivi nell’ambito di procedimenti amministrativi concernenti beni culturali presenti nel territorio di Roma Capitale” suonano particolarmente allarmanti: potranno decidere in una gamma inquietante di materie, l’orario dei musei, poco male, ma, perché no? il rilascio delle licenze per costruire in zone di interesse archeologico, artistico o architettonico o pareri sull’impatto ambientale, in una apoteosi del conflitto di interesse, se i lavori del Comune di Roma li autorizza il Comune di Roma come ben si addice a un provvedimento lasciato in eredità dal governo Berlusconi, preteso con tenacia dal Sindaco di Roma Alemanno, accolto con entusiasmo da Monti.

Così in un clima di festosa vacanza il sindaco Alemanno ha proposto in un Consiglio comunale nel quale l’opposizione sembra essere una presenza spettrale, una bomba edilizia con nuovi quartieri residenziali per un totale di 66 mila alloggi; venti milioni di metri cubi di cemento che cancelleranno per sempre oltre 2 mila ettari di territorio agricolo, in deroga alle dimensioni abnormi delle espansioni previste dal piano regolatore approvato nel giorno delle dimissioni di Veltroni dalla precedente giunta e che prevedeva 400 mila nuovi abitanti in una città che non cresce più da venti anni.

Il pretesto per il nuovo sacco di Roma, allestito in forma bi-partisan è ad alto contenuto morale: si deve fronteggiare l’emergenza abitativa, in modo che due mila ettari di terreno facciano posto a 66 mila case grazie all’identificazione dei cosiddetti “ambiti di riserva” per circa 200 mila abitanti, in barba al calcolo di Legambiente che denuncia che nella Capitale esistono più di 250 mila appartamenti vuoti e almeno 100 mila alloggi nuovi invenduti.
Ma Alemanno, già in campagna elettorale, deve garantire il consolidamento dei suoi sodalizi con i costruttori e gli immobiliaristi romani, l’opposizione, che si è condannata al silenzio come a Palazzo Chigi, sconta la scellerata approvazione del piano regolatore del 2008.

Così lo sfregio si compie ai danni del buon senso ed anche dei beni comuni: in nome dell’housing sociale secondo il sindaco che pensa che la destra sociale sia troppo di sinistra, uno dei requisiti fissati dal Comune è proprio che i nuovi alloggi vengano costruiti in suoli che il Piano “riserva come agricoli e che vanno ad aggiungersi agli Ambiti di Riserva a trasformabilità vincolata già individuati dal Prg vigente”, “trasformando”, lo dice la parola stessa, oltre 2000 ettari dei dolce agro romano in circa 23 milioni di metri cubi di appartamenti.

L’impasto scellerato che si indovina dietro al default siciliano ha la stessa composizione della materia su cui sta seduto il sindaco, il grande costruttore che piace al Governo, e che sta soffocando la città sotto una colata di cemento, costi, incuria, inefficienza. Le grandi opere sono così, a tutte le latitudini.

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