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sabato 13 aprile 2013

Dal default alle pratiche di autogoverno, anche a Messina

La delibera della Corte dei Conti sullo stato economico del Comune di Messina e sul piano di rientro dai debiti lascia poco spazio alle speranze di evitare il dissesto finanziario. Se questo dovesse verificarsi si aprirebbe una fase molto difficile caratterizzata da rischi per i servizi e per l’occupazione, da aumenti delle tariffe e da un incremento delle tasse comunali.

La nuova amministrazione che uscirà dalla tornata elettorale di giugno rischia, quindi, di essere trasformata in una sorta di un esecutore testamentario di una città destinata ad anni di austerità e miseria.

Su alcuni di questi problemi non c’e’ altra soluzione che aprire una fase di vertenzialita’ con il Governo Centrale che allenti gli obblighi e che consenta di salvaguardare occupazione e servizi. Non c’e', pero’, in ogni caso, alcun dubbio che i vincoli di legge sarebbero tali da determinare una paralisi dell’agire politico dell’amministrazione, condizionato dalla necessita’ di obbedire a degli automatismi stabiliti per legge. A meno che la nuova amministrazione non fosse in grado di costruire delle alleanze sociali che consentano la produzione di iniziative sociali svincolate dai dispositivi economici.

In “Ricchi e poveri”, una inchiesta sulla divisione della ricchezza tra gli italiani, basata su dati della Banca d’Italia, Nunzia Penelope descrive un paese che, seppur in crisi, e’ tutt’altro che povero. Un paese nel quale, pero’, la ricchezza e’ concentrata nelle mani di una parte molto limitata di popolazione.

 Conti alla mano, una distribuzione della ricchezza più equa consentirebbe a tutti di vivere una condizione, certamente, non da ricchi, ma di sicuro benessere. Sarebbe, quindi, decisivo individuare meccanismi redistributivi che consentano a tutti di sopravvivere alla crisi, ma, evidentemente, il sistema economico ha da anni accentuato il processo di concentrazione della ricchezza e di marginalizzazione economica di strati sempre più larghi di popolazione. Le stesse garanzie costituzionali che pongono dei vincoli all’operato d’impresa e che sono indirizzate a garantirne un’utilità sociale non corrispondono più alle nuove forme della produzione (e dei suoi meccanismi organizzativi) e risultano inefficaci.



Le strutture pubbliche non escono indenni da tale situazione, risultando a loro volta travolte dalla crisi del debito. Per anni molte amministrazioni hanno nascosto la propria condizione attraverso operazioni di finanza creativa e trucchi nei bilanci. Ormai, pero’, i nodi stanno venendo al pettine. La  loro crisi va di pari passo con il processo di concentrazione della ricchezza e la indisponibilità di questa a garantire la riproduzione sociale.

Gli istituti della rappresentanza politica locale divengono, quindi, in larga misura, inutilizzabili ai fini del benessere collettivo, se bloccati dentro i meccanismi della compatibilità economica.

Le pratiche di autogoverno possono non solo essere auspicabili per il loro intrinseco valore sociale e il loro carattere progressivo, ma addirittura risultare salvifiche all’interno di un quadro politico-amministrativo paralizzato dalla crisi. L’autogestione, l’autorganizzazione, la partecipazione, il mutualismo, gli usi civici, in generale la politica dei beni comuni e della democrazia diretta possono essere lo strumento di una rinnovata azione pubblica liberata dai vincoli dei dispositivi economici.

La storia del Teatro Pinelli e’ solo un esempio di come sia possibile oggi, se svincolati da pastoie burocratiche e clientelari, se autorevoli per competenza e appartenenza alle reti sociali, produrre iniziative culturali, sociali e
conviviali capaci di offrire quelle risposte che ne’ il pubblico ne’ il privato riescono a dare. Quel percorso sarebbe stato e sarebbe ancora più proficuo per la città se attivisti ed artisti non dovessero giocare a guardie e ladri con le forze dell’ordine, comandate evidentemente piu’ ad impedire il libero dispiegarsi della creatività e del dono che a custodirli.

Prima del Pinelli c’era stata l’esperienza del Quasivive a Torre Faro, che aveva recuperato un’area dismessa da tempo per dar vita ad alcuni tra gli eventi culturali più importanti degli ultimi anni. A questi esempi si possono aggiungere le tantissime iniziative che vengono prodotte nei campi della cultura, della solidarieta’, dello sport che vivono dell’attività volontaria senza alcun aiuto pubblico e con mille impedimenti burocratici.

Basterebbe mettere a valore tutto questo, offrire spazi, visibilità, potere decisionale alle esperienze dal basso per cominciare a seminare gli antidoti della crisi.
Gino Sturniolo

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