Berlusconi non raccontava menzogne solo per rappezzare i suoi affari, la sua politica e la sua vita: la bugia per lui è quasi una forma d’arte, un divertimento, un piacere, tanto che -racconta qualcuno – è tentato di sparare una balla anche quando la semplice verità si rivela innocua o addirittura più conveniente. A questo dobbiamo la memorabile antologia di fandonie che è culminata con il colpo di genio da commedia dell’arte che era la nipote di Mubarak. Insuperata, nonostante il suo milieu politico fervesse di invenzioni come le case acquistate a propria insaputa o i computer di Labocetta.
Silvio e la sua corte dei miracoli erano talmente fantasiosi che hanno arricchito una satira che ormai è orfana del capocomico e che visibilmente stenta tra logore battute o ricalchi di anatomie. Ma è anche questo si è risolto in un danno per il Paese e gli italiani: per tanti anni siamo stati abituati alla menzogna clamorosa, facile, sfacciata che adesso stentiamo a riconoscerla quando si presenta in vesti dimesse o seriose. Abbiamo perso gli anticorpi. Eppure proprio in questi giorni ci viene detta una balla clamorosa come la nipote di Mubarak in qualche modo anche più incredibile e dal punto di vista politico certamente più oscena di qualunque cosa possa aver fatto Ruby: che la crescita del Paese dipende, non solo dalla vendita di supposte al supermercato, ma anche dalla libertà di licenziamento, cioè dall’abolizione dell’articolo 18. Lo dice il governo e lo dicono i suoi sottocoda nei giornali di rango, lo dice qualche economista un po’ retrò, va a finire che tra un po’ lo diranno persino i tassisti.
Ce ne vogliono proprio convincere nonostante la realtà, anche quella più elementare, sia una smentita fragorosa a questa tesi: il 90% delle imprese italiano sono sotto i 15 dipendenti e dunque non ricadono sotto le tutele dell’articolo 18. Quest’ultimo poi non impedisce certo di licenziare a causa delle crisi aziendali: 700 mila sono state le persone espulse dal lavoro negli ultimi anni solo dal settore manifatturiero. L’idea che ci sarebbe una corsa alle assunzioni, in mancanza del simbolico articolo 18, è proprio una puttanata travestita da nobile questione di stato. E’ la nipote di Mubarak di Monti e degli euroburocrati.
Da anni ormai, persino nell’occidente neoliberista, la migliore intelligenza ha smascherato la caparbia bugia con cui l’economia si vuole presentare come scienza e non come una branca della sociologia quando non della politica. Ma certo sarebbe interessante se qualche economista, invece di recitare il mantra sui giornali, ci dimostrasse “more matematico”, non con le ciance, quanti posti si guadgneranno, dove, come e in che tempi, cioè presentasse qualcosa di scientifico che si rivelasse non un’astrazione, ma svelasse capacità euristiche, cioè di previsione esatta. Se ciò accadesse sono disposto a fare ammenda e anche a farmi tagliare la mano destra.
Ma credo che l’avrò attaccata per un pezzo: ciò che si vuole ottenere, suggerito con insistenza dall’Fmi e sfondando molte porte aperte, è solo una riduzione dei diritti da attuare sia in via diretta con l’abolizione dell’articolo 18, sia in via indiretta permettendo alla grande impresa di ricattare i lavoratori iscritti ai sindacati che non piacciono o che magari osano protestare. Infatti a Pomigliano, dove si comincia a produrre la nuova desolante Panda e dove è stato concesso a Marchionne di costruirsi un’isola contrattuale e persino costituzionale, su mille riassunti dalla vecchia fabbrica non ce n’è nemmeno uno della Cgil.
Questo vuole un’industria che da un quindicennio non investe preferendo ritrovare un’impossibile competitività sui bassi salari e sulla precarietà e questo pensano che sia giusto gli europeisti dei diritti negati. Il resto è solo la carta regalo con cui si vuole vendere il pacco e un’ulteriore facility sul lato dell’offerta. Perché si sa: i diritti non sono più tali, sono ormai diventati merce.
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