La sua improvvisa ascesa al governo è stata accompagnata e giustificata dalla fama di essere un tecnico, cosa che presso un’opinione pubblica sconcertata e depressa, è stata interpretata come una garanzia di imparzialità e di correttezza nel fare ciò che si doveva fare. Noi sappiamo bene che questa è un ‘illusione, che l’economia è una forma di politica e di filosofia più che una scienza, ma bene o male la sua entrata in campo in un momento drammatico, accompagnata dal tramonto dell’intollerabile cavaliere e della sua banda, le hanno aperto un credito sia nell’opinione di centro sinistra che in quella di centro destra non appena terminato lo sconcerto per la caduta del caimano, tanto che adesso può contare tra i suoi fan personaggi di alto livello come Stracquadanio e la Santanchè.
L’iniquità evidente delle sue ricette per farci uscire dalla crisi, la sua totale adesione alle tesi della signora Merkel, il suo rifiuto di fare fronte comune con i Paesi più deboli, scegliendo per l’Italia la strada della recessione, mi hanno personalmente convinto che la scelta della sua persona sia stata o imposta dall’esterno, come si sussurra nella cancelleria del Quarto Reich, oppure sia stato un grave errore di valutazione. Si è forse pensato che – mi perdoni il linguaggio – quel fuffismo da terza via espresso più per tradizione familiare che per convinzione, più per rendersi amico di tutti che per adesione, fossero più forti della sostanza, cioè del suo fare parte di organismi culturali e finanziari che di fatto esprimono l’essenza distillata del neoliberismo.
Ma queste sono mie convinzioni che non pretendo siano condivise. Tuttavia la sua inesplicabile pervicacia nel voler cancellare l’articolo 18, quando esso ha ben poco a che vedere con la situazione italiana e con le stesse possibilità di licenziamento, il disprezzo con cui dà i voti ai cittadini, l’insolente ipocrisia con la quale un esecutivo formato da garantiti col posto fisso e volti a garantire i propri figli, tratta il dramma di una generazione, non solo esprime una grossolanità etica non lontana dagli abissi che abbiamo toccato nel recente passato, ma si rivela anche come una sfacciata menzogna, diciamo così, scientifica.
E qui – mi duole dirlo – le alternative per comprendere la deriva che sta prendendo il suo governo non sono molte. O lei, nonostante le cariche accademiche, non conosce la letteratura economica e si affida a vulgate da bar sport oppure, come temo, obbedisce a concreti interessi di altro tipo. Certamente lei conosce il nome di Olivier Blanchard, docente di economia al Mit, attuale economista capo al Fondo monetario internazionale, autore di una manuale di macroeconomia che è la bibbia degli studenti, anche presso la Bocconi. E’ oltretutto uno dei testi sui quali i filosofi della scienza si sono esercitati – assieme al classico Schumpeter – per mostrare la totale astrattezza e insignificanza euristica della scienza economica. Ma a parte queste pignolerie della mia parte prussiana, il fatto è che il profeta e sistematore teorico del liberismo già nel 2006 sosteneva che «le differenze nei regimi di protezione dell’impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi» . Questa è la conclusione a cui giunge il saggio European unemployment: the evolution of facts and ideas, uscito nel 2006. Nel caso le fosse sfuggito glielo allego in pdf qui. Certo sono passati quasi 6 anni ed evidentemente nessuno nel suo governo l’ha letto.
Ma naturalmente c’è di più. Tito Boeri e J. van Ours, in un altro saggio, edito della Princeton University press, mostrano come su tredici ricerche sulla relazione tra lavoro e tutele sette segnalano che non c’è alcuna relazione, tre dicono che quando cresce la flessibilità del lavoro diminuisce l’occupazione, mentre solo una presenta una correlazione positiva. Anche qui comprendendo che tra un ricevimento a Berlino e uno Monaco le è forse mancato il tempo di leggere, le allego il primo capitolo dello studio, quello del resto fondamentale (The economics of Imperfect labor Markets). Il resto se lo potrà procurare in line spendendo appena 55 dollari.
Come se questo non bastasse la stessa Ocse dopo una serie di ricerche sull’argomento ha raggiunto la convinzione che non esiste alcuna correlazione fra il grado di tutela del lavoro e il livello di occupazione. L’insieme di questi dati empirici è stato pubblicato sotto forma di grafico dall’economista Emiliano Brancaccio e sempre nell’ipotesi che lei non abbia tempo per informarsi, gliela mostro direttamente qui:
Come si può agevolmente vedere sull’ascissa (la linea orizzontale) ci sono gli indici di protezione del lavoro, mentre sull’ordinata (la linea verticale) i tassi di disoccupazione. I puntini rappresentano i vati Paesi dell’Ocse. E’ facile vedere che l’equazione meno tutele più lavoro è solo una fantasia.
A questo punto sarebbe gradito ai cittadini italiani, almeno a quelli che non vivono di frasi fatte e di ottuse certezze, perché quell’articolo 18 le sta tanto sull’anima da aver ordinato anche a ministri del tutto incompetenti in materia di cantare questa canzone. Cosa si nasconde dietro questa campagna contro le tutele? Una sua personale convinzione non supportata dal alcun dato, anzi smentito dai dati a disposizione? O qualche suggerimento che le viene da Confindustria. Oppure un qualche gentile invito da chi magari vorrebbe papparsi al minor prezzo possibile una parte di aziende ancora vivaci e sul mercato? Un sussurro, Stimmt doch, Mein Liebstöckel?
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