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mercoledì 4 aprile 2012

Banche assolte dall’Imu: sono luoghi di culto del denaro

Anna Lombroso per il Simplicissimus
Ma ve lo ricordate l’estatico giubilo dei fan del Presidente del Consiglio quando volle rendere palese il suo indomito laicismo sottraendosi al bacio dell’anello papale? I mai-contenti sommessamente rilevarono che ben altro ci voleva.. per esempio far pagare l’Imu sui beni ecclesiastici. O mettere nell’agenda governativa anche i sottovalutati, trascurati e discrezionali temi etici, che altro non sono che aspetti centrali delle nostre esistenze.

È che questo governo è politeista: adora il Dio dei cristiani, ubbidisce alla sua chiesa e appaga le istanze delle sue gerarchie. Ma idolatra il dio denaro, più in prodotti immateriali che in monete sonanti. E da solerte casta sacerdotale è al servizio delle sue organizzazioni temporale e delle sue cattedrali.

Così veniamo a sapere che le fondazioni bancarie non pagheranno l’Imu. Lo hanno deciso le Commissioni Bilancio e Finanze del Senato, che hanno bocciato un emendamento al dl fiscale presentato dall’Idv, che prevedeva il pagamento dell’imposta cosiddetta patrimoniale anche per le fondazioni bancarie, che sono quasi 90 e dispongono di un patrimonio superiore ai 50 miliardi. Ma col favore del governo, si professano no profit. Eppure almeno il 60 per cento dei loro budget è investito in titoli di Stato ed in società private scelte esclusivamente secondo il criterio della redditività e da questo capitale le fondazioni ricavano pingui guadagni che reinvestono, per lo più in un mecenatismo secondo criteri se non opachi, certamente discrezionali.
Si sa che se la tendenza famelica del capitale è quella di mangiarsi il mondo, il liberismo gliene dà licenza, confondendo flessibilità con precarietà, arbitrarietà con franchigia. Lo stesso concetto d’impresa è sinonimo di “ libera” iniziativa: deriva da “intrapresa”, ovvero l’iniziativa del fare, legata all’attività individuale, al mito dell’efficientismo e al primato egemonico del privato sull’interesse generale, del personale sul bene comune.

Non è casuale quindi che la cultura che si addice al governo è quella delle fondazioni, che l’istruzione che piace al liberismo è quella delle scuole private, che la formazione che si sposa meglio col loro pensiero forte è quella dei parcheggi a pagamento per enfant gaté. E che la loro conoscenza si limiti alla competenza – peraltro poco dimostrata della compagine dei ministri e sotto ministri.
Si perché la conoscenza ai loro occhi comporta la sgradita conseguenza di essere subordinata alla libertà, al giudizio critico, all’esercizio del ragionare autonomo, mentre preferiscono il pensiero unico dei cervelli di Strasburgo, al suo dispiegarsi in digitazioni burocratiche di criteri general-generici che favoriscono l’omogeneizzazione delle condotte e del senso comune in una drastica semplificazione continentale della varietà delle simbolismi , dell’appiattimento delle bellissime differenze, dell’immiserimento delle idee comuni condannate alla reclusione in un territorio da consumare per fare reddito.

Nel sinistro mutismo del ministro si rivela insieme all’irrinunciabile ideologia tremontiana e montiana che cultura, arte, idee, creatività sono optional utili solo se commerciabili o infilabili on profitto tra due fette di pane, un disprezzo da ragionieri spocchiosi e renitenti alla valorizzazione di bellezza, storia, memorie, forse perché anche l’accesso a questi beni sono diritti inalienabili e generali.
Lo si vede nell’approccio adottato finora per l’Aquila, dove il computer centrale tramite OCSE fa la sua immodesta proposta per la resurrezione dell’Aquila come smart-city, che chiunque abbia a cuore un’idea di città come organismo viventi e non come parchi a tema, interpreta come una digressione nel gran mare della banalità incompetente di urbanistica, recupero di centri storici, Carta di Gubbio e buonsenso, ispirata come è a una conservazione che salva le facciate e aabbatte quello che c’è dietro, garantisce i monumenti e sgretola nell’incuria e nell’indifferenza “l’edilizia minore”, quella delle case e della storia dei cittadini.

E vanno nella stessa direzione le misure di liberalizzazione, talmente malate del gigantismo ottuso del profitto cieco da annientare tradizioni, strade, abitudini, inclinazioni: grandi centri commerciali meta dei pellegrinaggi di disperati senza soldi e senza piazze, grandi compagnie di taxi, grandi studi di architettura al servizio di Grandi Opere.

Un Belpaese sempre più povero diventa un brutto paese in liquidazione: secondo l’articolo nove della nostra Costituzione, il fine delle nostre ricchezze, dei nostri beni non è la produzione di reddito (privato), ma di cultura (pubblica). Ed è per questo che è lo Stato, e non un privato in cerca di lucro, a dover mantenere quel patrimonio: e lo potrebbe fare destinando ad esso anche solo il 5% dell’attuale evasione fiscale. Perché è certo giusto ricordare che la cultura è una condizione essenziale per lo sviluppo: ma è fatale dimenticare che lo scopo vero della cultura è quello di sottrarre almeno una minima parte della nostra vita al dominio del denaro e del mercato, e di farci così rimanere esseri umani.

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