Licia Satirico per il Simplicissimus
Che i tagli agli stipendi fossero incostituzionali lo sospettavamo da tempo. Da veri ingenui, però, pensavamo che la cosa valesse soprattutto per gli stipendi più bassi, per i sommersi, per i portatori non più sani di sacrifici necessari. Proprio pochi giorni fa abbiamo appreso con tristezza (e senza sorpresa alcuna) che in cinque anni i dipendenti pubblici hanno perso tra i seimila e gli ottomila euro di salari, tra blocco delle retribuzioni e dell’indennità di vacanza contrattuale dal 2010 al 2014. Sempre che i Maya non risolvano il problema con metodi alternativi, alla fine del 2014 mancheranno all’appello ben dieci punti del leggendario potere d’acquisto degli stipendi statali: quello che dovrebbe rilanciare l’economia inducendoci a spese gioiose nonostante l’aumento dell’Iva.
La Corte costituzionale ci ha riportati alla dura realtà, sancendo un principio sacrosanto in un contesto in cui diventa sacrilego. La Consulta ha salvato dai tagli previsti dal decreto 78 del 2010 gli stipendi dei magistrati e quelli dei dirigenti pubblici con retribuzione superiore ai novantamila euro. I tagli in questione prevedevano, fino al 31 dicembre 2013, una riduzione del cinque per cento delle retribuzioni comprese tra i novanta e i cento cinquantamila euro, e del dieci per cento per quelle oltre questo limite. Due i principi alla base della decisione. Per i dirigenti pubblici sarebbe stato violato il principio di uguaglianza, essendo venuta meno la parità di trattamento rispetto ai manager privati.
Per quel che riguarda, invece, i magistrati, l’adeguamento automatico triennale dello stipendio sarebbe garanzia di indipendenza, non potendo le toghe godere di altri strumenti contrattuali.
La sentenza avrà effetto immediato per 26.472 manager pubblici (tra cui 10.000 medici). La somma da restituire agli usurpati, cui si aggiungerà quella da rimborsare ai giudici, si aggira intorno ai 23 milioni di euro.
Monti sarà subito costretto a correggere la legge di stabilità del 2013, approvata martedì scorso in consiglio dei ministri. Esultano Magistratura indipendente e l’Unione nazionale dei dirigenti dello Stato: il giudice delle leggi ha finalmente stabilito che magistrati, prefetti e dirigenti pubblici non devono essere i soli a pagare i costi della crisi.
Ma allora la crisi chi la paga? Tra le cartilagini di una sentenza difficile da digerire, la Consulta afferma che in caso di gravi congiunture economiche possano esserci deroghe e limitazioni, ma solo a condizione che il sacrificio “non sia irragionevolmente esteso nel tempo, né irrazionalmente ripartito tra categorie diverse di cittadini”. Nel caso previsto dalla legge 78 del 2010, i limiti sarebbero stati irragionevolmente oltrepassati.
Non possiamo fare a meno di pensare che non siano stati ancora ragionevolmente oltrepassati i limiti al massacro dei nostri stipendi, più simile a un taglieggiamento che a un taglio. Che il blocco del turnover nelle pubbliche amministrazioni e la precarizzazione crescente siano ragionevoli. Che siano ragionevoli la miniaturizzazione delle pensioni e la flagellazione degli esodati, ircocervi malinconici del pensionamento mancato. Che sia, soprattutto, ragionevole per l’esecutivo andare a cercare altrove, su categorie più remissive, le decine di milioni di euro che renderanno instabile la legge di stabilità che insegue il miraggio pernicioso dei patti di stabilità e dei pareggi di bilancio.
Tra consiglieri regionali che lamentano l’impossibilità di arrivare a fine mese con un argent de poche inferiore agli ottomila euro e dirigenti pubblici che si sentono discriminati, la crisi italiana giunge allo show down finale: a nessuno interessa l’indipendenza morale ed economica dei comuni dipendenti, dei professori, degli statali in via di estinzione o di consunzione.
Speriamo che prima o poi la Consulta si ricordi anche della dirittura dei diretti, trafitti dallo spleen stipendiale del lungo tempo dell’iniquità.
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