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giovedì 7 febbraio 2013

La marcia degli invisibili I senzatetto vogliono diritti - La Stampa

Non chiamateli barboni. Questa è la marcia degli invisibili, di quelli che hanno perso tutto ma non si vogliono arrendere. La marcia di persone come Roberto Ferrucci, 41 anni, ex magazziniere, ex panettiere, ex titolare di un’esistenza normale, che per spiegarti le sue ragioni ti passa un piccolo biglietto scritto a mano. Dentro c’è la storia di un ragazzo romeno che ha conosciuto al dormitorio di via Sacchi: «Si è rotto la tibia, ha i chiodi nella gamba. Ma l’hanno dimesso per liberare il posto. Non può più lavorare, ma è costretto a girare tutto il giorno per trovare da mangiare. Alle sette di sera arriva stremato, la gamba gonfia come un cuscino. Non è accettabile una cosa del genere. Non c’è più dignità».



È la prima marcia dei senzatetto. Una manifestazione pubblica per chiedere casa, diritti, lavoro, una possibilità di ricominciare. Ieri mattina, quattro di loro sono andati in questura per ottenere il permesso. Il giorno è il 14 febbraio. Partenza alle 9,30 davanti al portone delle suore vincenziane di via Nizza, a Torino, dove ancora si può fare colazione ogni mattina e lavarsi, ma dove una volta venivano distribuiti anche i sacchetti della sopravvivenza: panini, frutta, biscotti e acqua. Ora non più. È un luogo simbolico.

Da due anni i posti nelle mense stanno diminuendo, come i letti nei dormitori pubblici. E non è certo un caso se ieri gli operatori sociali di Torino sono scesi in piazza per protestare contro i tagli: loro sono l’altro pezzo dello stesso problema. Non ci sono più soldi da destinare alla povertà e all’immigrazione. Mentre stanno aumentando le persone come Stefano Deriu, 33 anni, ex carrellista in un ingrosso di alimentari: «Prima ho perso il lavoro, poi mi sono separato. Mi sono ritrovato in strada, ma lotto per le mie bambine. Per fortuna sono così piccole che ancora non possono capire bene quello che mi è successo». Stanno fuori da tutto, ecco cosa è successo. Senza un euro in tasca.

Mense, panini, code agli uffici per i lavoro interinali. Piccoli lavoretti in nero, quando va bene. Altre code per trovare un posto dove dormire. Lunghissime ore di niente. Gelo. Alcol. Soldi chiesti in prestito per bere un caffè. Sono un nuovo tipo di clochard. Ognuno ha i suoi motivi e una storia precisa. Ognuno ha la sua goccia che ha fatto traboccare il vaso. «Io ho deciso di protestare perché da cinque giorni dormo al pronto soccorso - dice l’ex elettricista Salvatore Capizzi - per me in dormitorio non c’è più posto. Sono il numero 57 in lista d’attesa».  (....da La Stampa)

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