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venerdì 22 marzo 2013

L’unico boom nel 2013 è quello dei poveri


POVERT~1Anna Lombroso per il Simplicissimus
Diavolo d’un uomo questo Sangalli. Da Cernobbio, e da dove se no? il numero uno di Confcommercio ci mette a parte della rivelazione che ha avuto: l’apprendere che nel 2013 i poveri saranno 4 milioni, che ogni giorno si abbassano saracinesche di negozi, bar, locali, alberghi, con la previsione di una perdita netta di altre 90mila imprese del terziario del biennio 2013-2014.  E che – e questa è la sorpresa che ci riserva – la crisi da economica è diventata sociale.

Secondo Confcommercio  alla fine del 2013 verrà ampiamente superata la soglia di 3,5 milioni di “assoluti poveri” certificata ufficialmente dall’Istat per il 2011, pari a oltre il 6% della popolazione. Nel 2006 l’incidenza era ferma al 3,9%. Il dato, con una previsione massima di 4,2 milioni di poveri totali, è contenuto nel Misery index Confcommercio (MiC), il nuovo indicatore macroeconomico mensile di disagio sociale che denuncia che l’Italia in cinque anni ha prodotto  circa 615 nuovi poveri al giorno, un territorio di  disagio ed emarginazione  che è destinata a crescere ancora, e di molto. E se i poveri assoluti per Confcommercio sono oltre 4 milioni, per Codaconsa quelli che faticano ad arrivare alla fine del mese, per i quali il reddito non è più sufficiente, e sono quindi costretti a ridurre i consumi, sono ormai i due terzi della popolazione.


E Tito Boeri rincalza: la ragione principale della nuova povertà è da attribuire alla perdita del lavoro e da una ricerca una ricerca effettuata su Milano per la Fondazione De Benedetti e la Bocconi, proprio la fucina dei tecnici evidentemente sordo-ciechi oltre che incapaci,   risulta che i senzatetto sono raddoppiati nel giro degli ultimi cinque anni. Insomma, lascia capire, a popolare bidonville ai margini delle Milano 1, 2, 3, dei quartieri residenziali, dei ghetti di lusso che alzano muri sempre più, potrebbe esserci il ragioniere della porta accanto che non incrociamo più in ascensore,  il piccolo imprenditore che aveva ristrutturato l’ufficio nel quale lavoriamo.

A Roma nuovi reietti contendono a immigrati e Rom le baraccopoli delle antiche borgate, in un ricambio che conferma il configurarsi di un Terzo Mondo interno, esteso, disperato e vergognoso della sua miseria. Ce ne vuole di tempo, perché si arrendano alla mensa della Charitas o si “dichiarino” a parenti e conoscenti, anche loro poco soccorrevoli e in difficoltà, preferendo una pudica clandestinità che li riduce ad invisibili, corpi nudi disposti a qualsiasi espediente servile per poi abbandonarsi a una specie di tremendo letargo delle speranze, a una sopravvivenza sempre più effimera e grama.
E se a lungo abbiamo pensato a un Nord “riparato”,  propaggine  della pingue Europa e a un Sud separato e marginale ostaggio della criminalità, adesso la povertà ha prodotto una perversa unificazione, con un elemento comune in più, quel risentimento rabbioso che si esprime contro chi sta peggio, minaccia aggiuntiva alla perdita di sicurezze, lavoro, garanzie sociali. Così a Ponticelli se la prendevano con i rom i ragazzi che facevano da base di reclutamento dei clan dei Sarno, a Opera periferia sud di Milano una mobilitazione popolare nutrita dall’infamia leghista diede vita alla notte dei fuochi e alla giornata dell’orgoglio operese contro gli “intrusi”, immigrati, rom, oggi il senso di perdita e di spaesamento che ammala gli stressati della ristrutturazione, i forzati del precariato, gli impiegati assottigliati dalla ritirata dello Stato, i piccoli commercianti che reiterano i fallimenti, vendendosi la casa e dormendo nel retrobottega, guardano con sospetto, orizzontalmente, tutti, tutti concorrenti, tutti potenziali nemici, tutti minacciosi.

E tutti si muovono su un terreno periglioso come fosse in cratere dopo un’esplosione distruttiva, in una mutazione sociale che è un’apocalisse, perché c’è dentro la perdita del lavoro, la perdita della speranza di trovarlo, la perdita della garanzia di conservarlo, la perdita della dignità di persona che ne deriva e la perdita della “comunità” che si anima attraverso il lavoro. Quella comunità della fabbrica, del sindacato, della sezione di partito, del bar, della piazza, dei luoghi dello stare insieme e del ragionare insieme cui si sono sostituite le tremende solitudini dell’abbandono, i crudeli isolamenti delle vittime cui sono stati tolti  come per un’ingiustizia globale i sentimenti caldi, l’amore, la terra, le radici, per lasciare il posto al silenzio algido della rinuncia, calato come quelle serrande sul desiderio, sui progetti, sulla speranza, sull’utopia.
Ormai dell’assolutismo dispotico  della povertà voluta e alimentata dalle aberrazioni del capitale finanziario e dei suoi sacerdoti, si accorgono padroni e padroncini, minacciati anche loro dalla  smania di accumulazione, dalla condanna dell’avidità, dalla coazione a ripetere dettata dalla rapacità e della prepotenza. Ma si avvitano sui loro stessi errori, sulle loro perversioni, come dei poveri ricchi impauriti dallo specchio. Spetta a noi abbattere i tabù, Europa, euro, rigore, debito, per riprenderci il coraggio delle scelte e delle nostre vite.

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