Quanto vale un’ora di lavoro? Dipende. Sette, otto euro se fate le pulizie. Ma anche tremila euro, se fate il super-top-manager di qualche grande banca d’affari. Un’ora di tempo presa a noleggio, ovvero sessanta minuti per 60/70 kg di materiale umano impegnato. Due valutazioni molto, troppo diverse.
E’ giustificato, tutto questo divario? Cosa rende il super-top-manager tanto diverso da un lavoratore agricolo? Prendiamo un alto dirigente della Goldman Sachs di quarant’anni (o un neurochirurgo, o quello che volete voi) e prendiamo un contadino della stessa età. Uno passa tutto il giorno su una scrivania a pensare, l’altro passa tutto il giorno nei campi a sudare. Il primo ha perso il contatto con i dettagli, come è giusto che sia occupandosi di strategie complessive, ma in compenso è come un capitano che traccia la rotta: sa interpretare il corso degli eventi meglio degli altri (o perlomeno dovrebbe). Il secondo supervisiona centimetro per centimetro i suoi terreni, sa come mungere una mucca, sa guardare il cielo e stabilire qual è il momento migliore per la semina.
Quanto ci hanno messo per arrivare dove sono? Quanto gli è costato, in termini di fatica? Ognuno ha fatto il suo percorso, e sono percorsi molto diversi, ma la risposta giusta è una sola: ci hanno messo quarant’anni. Che importanza ha il fatto che uno li abbia spesi sui libri, per sua scelta, e l’altro li abbia spesi nei campi? Entrambi sono diventati molto esperti. L’esperienza si può maturare solo dopo una vita in cui ci si occupa con volontà, costanza e dedizione della stesa cosa, arrivando a coglierne ogni aspetto essenziale fino a padroneggiarlo.
Entrambi dormono poco, si alzano prima dell’alba, lavorano tutto il giorno e vanno a letto tardi. Tutti e due sarebbero totalmente impreparati a ricoprire il ruolo dell’altro, perché ci hanno messo quarant’anni a cogliere le sfumature più sottili del loro lavoro. Così, dipendono strettamente l’uno dall’altro. Il manager ha sacrificato la vita chiuso in una stanza, mentre gli altri giocavano a pallone, e ha speso parte della fortuna di famiglia per pagarsi gli studi. Il contadino ha sacrificato la vita sotto al sole e sotto alla pioggia, rovinandosi le mani e la schiena, e ha investito le fortune di famiglia per comprarsi le macchine agricole e i terreni.
Perché il costo orario del lavoro del manager vale di più del costo orario del lavoro del contadino? Esiste una ragione specifica che non poggi le sue basi su una deriva economico-finanziaria di tipo classista cui siamo talmente abituati da non riuscire neppure più a metterla in discussione?
Io facevo l’informatico. Avevo studiato tanto. Liceo scientifico, università (non conclusa perché sono andato a lavorare prima), corsi e tanta passione spesa sui libri in totale autonomia. Lavoravo negli openspace dei palazzoni di vetro. Definivo i processi informativi e gestionali di grandi aziende che fatturavano milioni di euro. Prendevo spesso l’aereo e giravo l’Europa. Cosa mi rendeva superiore al panificatore mio coetaneo che conosceva tutti i trucchi e i mille modi per fare la pasta per la pizza, per gli sfilatini, per il pane casereccio, per le mantovane, per la focaccia e per tanto altro? Quando ci incontravamo, magari la sera a cena, io lo guardavo ammirato mentre mi spiegava come si facevano i grissini. Lui guardava ammirato me mentre gli spiegavo il significato di object oriented. Cose affascinanti ma, in fondo, per molti versi senza senso. Cosa ci rendeva così diversi? Ma lo eravamo, poi, così diversi?
Qualcuno risponderà che è la legge della domanda e dell’offerta. Iniziamo col dire che non è un discorso di responsabilità, perché la responsabilità di un contadino verso la sua famiglia, verso i suoi campi, verso i suoi animali e verso i consumatori che attendono i suoi prodotti non è inferiore a quella di un top manager nei confronti della sua azienda. Può essere invece un discorso di numerosità? Ovvero: siccome ci sono più contadini che neurochirurghi, il lavoro dei primi vale meno?
Vediamo: perché ci sono meno neurochirurghi? Se un contadino potesse scegliere di far fare il neurochirurgo al figlio, lo farebbe? Forse sì, se non costasse così tanto e se non perdesse un paio di braccia forti nei campi. Allora potremmo dire che sia più semplice per il figlio di un chirurgo fare il chirurgo a sua volta, perché ha più disponibilità economiche e meno vincoli sociali? Ma se è più semplice, allora il valore della sua conquista vale meno. Se è un privilegiato, perché ha potuto scegliere di non fare il contadino, allora un’ora di lavoro del super-top-manager dovrebbe valere meno di quella di un contadino, perché lui ha già ricevuto un vantaggio, ha dovuto fare meno fatica, è partito da una posizione più avanzata rispetto ai blocchi di partenza. Dovrebbe dunque ricevere un secondo vantaggio? Dovrebbe cioè avere innanzitutto una possibilità in più rispetto agli altri – quella di potersi permettere gli studi - e come se non bastasse il suo tempo-lavoro dovrebbe poi essere ricompensato infinitamente di più?
Nel mio mondo ideale, un’ora di tempo è un’ora di tempo. E poiché il confronto tra due professionisti si fa in termini di esperienza maturata, e quindi di un’analoga quantità di tempo impiegato a lavorare duramente (nessuna esperienza si determina con l'ozio), si tratta di un criterio conservativo rispetto al concetto di meritocrazia, perché chi non ha fatto niente nella sua vita non può essere paragonato a chi si è sempre impegnato. Non ha conoscenze e dunque il suo lavoro varrà meno. Però chi ha fatto, e ha fatto in egual misura, non dovrebbe subire discriminazioni in base al livello di manualità del suo lavoro.
Ma finché sarà il mercato libero a dominare la nostra società, che è un po’ l’equivalente del “pesce grande mangia pesce piccolo” darwiniano, oltre a costruire impressionanti ingiustizie globali che si sostanziano nell’inflizione di ulteriori immeritate punizioni economiche ai popoli (mentre i super-top-manager vanno a Cortina), avremo sempre un fattore 400 a separare i guadagni di un imprenditore da quelli del suo più umile operaio. E questo nonostante l’impegno, l’esperienza, la fatica e la responsabilità che entrambi mettono nella loro professione.
Chi sostiene che questo sia giusto appartiene a una tra due categorie possibili: quelli che hanno subito un tale condizionamento cerebrale da avere perso ogni facoltà di immaginare un mondo migliore tra quelli possibili, e i pesci-grandi che vogliono preservare le loro dimensioni per essere sicuri di continuare a mangiare senza essere mangiati. Chi viceversa sostiene che questo sia ingiusto o è un pesce-piccolo stanco di essere sempre mangiato, oppure è un pensatore illuminato che però non ha la forza o il coraggio di ergersi a contrastare la corrente del fiume, per la paura di esserne travolto.
Voi, a quale categoria appartenete?
byoblu
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