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giovedì 2 agosto 2012

La crescita sporca

Anna Lombroso per il Simplicissimus
Lo scriveva la Corte d’appello di Palermo nel 2008, lo ha confermato la seconda sezione penale della Cassazione nel respingere la revisione del processo: Lorenzo Panzavolta, ex dirigente della Ferruzzi, uomo di fiducia di Gardini tra gli anni Ottanta e Novanta, è uno dei protagonisti nella spartizione illecita degli appalti siciliani, mettendo “il proprio ruolo al servizio degli interessi mafiosi”. Proprio allora “la mafia – scrivono i giudici di Caltanisetta – inizia a a gestire direttamente l’aggiudicazione degli appalti a imprese a lei vicine”. Così “Cosa Nostra, si inserisce a tappeto nella gestione dei lavori conto terzi e nei subappalti, applicando il pizzo sul pizzo, cioè decurtando le tangenti dirette ai politici dello 0,80%”.
In presenza o no di trattative con lo Stato, sono gli anni in cui le mafie cambiano pelle: da allora perfezionano la loro penetrazione nel tessuto economico pubblico e privato; i gruppi di fuoco diventano manager del crimine, i boss di quartiere diventano imprenditori, entrando nel sistema legale, indirizzando i loro torrenti di denaro sporco nel fiume carsico della tangenti o acquisendo attività lecite come asettiche “lavanderie”.



Approfittano del diffuso clima di tolleranza dell’illegalità per stringere sodalizi opachi e occupano da padroni settori strategici, quelli tradizionali e quelli innovativi: l’“evoluzione” delle specie mafiose coincide con quella delle specie della corruzione e del malaffare politico nell’impasto tossico di una criminalità economica che si colloca comodamente nella crisi per trarne giovamento e che si nutre della sostanza gelatinosa e torbida della finanza creativa.
L’allarme trasmesso dai servizi segreti a Clinton nel 2000 secondo il quale entro il 2010 interi stati avrebbero perso la loro sovranità passando sotto l’occupazione e il controllo di organizzazioni criminali, ha perso il carattere profetico per diventare cronaca, per realizzarsi in quella una cupola globale che muove i destini del mondo, apparentemente legale e fatta di grandi patrimoni, di alti dirigenti del sistema finanziario, di politici che intrecciano patti opachi con i proprietari terrieri dei paesi emergenti, di tycoon dell’informazione, insomma quella classe capitalistica transnazionale che domina il mondo e è cresciuta in paesi che si affacciano sullo scenario planetario grazie all’entità numerica e al patrimonio controllato e che rappresenta decine di trilioni di dollari e di euro che per almeno l’80% sono costituiti dai nostri risparmi dei lavoratori, che vengono gestiti a totale discrezione dai dirigenti dei vari fondi, dalle compagnie di assicurazioni o altri organismi affini. Ma i cui interessi si intrecciano in forma forse “paritaria” o di reciproci soddisfazione e aiuto, con quelli delle mafie anche esse ormai globalizzate e transazionali, altrettanto implacabili, rapaci e desiderose di riconoscimenti di liceità oltre che di ampliare i loro business a brand legali, profittevoli o utili per il riciclaggio.
Sul denaro della mafie ruota una fetta – forse la più rilevante – dell’economia mondiale, sui loro traffici si gioca la partita degli assetti geopolitici: droga, rifiuti, armi, prostituzione, neo-schiavismo che fanno circolare volumi formidabili di soldi indistinguibili dai nostri risparmi o dai nostri debiti in una gelatina avvelenata.

E se quella cupola “legale” ha bisogno dei servizi delle mafie e dei loro quattrini, le mafie hanno bisogno dei servizi leciti e ufficiali di quei poteri.

Hanno cominciato con i money transfer, hanno continuato con interventi più o meno trasparenti nell’economia reale, magari anche attraverso il gioco d’azzardo “statale”. Ma adesso gli obiettivi sono altri.

La relazione sulla politica dell’informazione per la Sicurezza presentata dal Governo al Parlamento e relativa al 2011 segnala: “nel mezzo di una fase di recessione economica – condizione di per sé propizia per le attività di usura e di riciclaggio – un’ulteriore fase di rischio è rappresentata dalla possibilità che i profitti derivanti dai traffici illeciti gestiti dalla organizzazioni criminali possano confluire nei capitali sociali di istituti di credito in via di costituzione”. E’ probabile che vogliano passare all’autarchia delle operazioni di pulizia facendosele in casa, controllare i controllori, erogare crediti agli amici e negandoli ai nemici, dando parvenza legale all’usura, due attività che fanno parte integrante della vocazione degli istituti bancari – come della loro – da quando mondo è mondo.
E d’altra parte l’operazione di riciclaggio in Italia ha un costo del 30%. In Italia, perché i paesi meno indulgenti con le attività di occultamento della provenienza del denaro sporco, come gli Usa costa il doppio. Così invece di pagare una esosa provvigione per le operazioni di pulizia, conviene acquisire quote e credenziali bancarie di istituti tolleranti o complici, conquistati dalla immissione di contante, che da lì circolerà indisturbata sotto forma di liquidità abbondante anonima e poco rintracciabile. Secondo Bankitalia il riciclaggio “rappresenta un ponte tra criminalità e società civile che offre ai criminali – che dovrebbero essere banditi dalla società – gli strumenti per essere accolti e integrati nel sistema, arrivando a sedere nei consigli di amministrazione e a contribuire all’assunzione di decisioni economiche importanti”. E cresce il “rischio di cattura nei confronti degli operatori inizialmente inconsapevoli della provenienza criminosa dei fondi”.

Sempre nella stessa relazione del governo che cita uno degli ultimi rapporti dei Servizi segreti “sono aumentati i tentativi di infiltrazione in numerosi settori dell’economia legale, oltre a costituire un pericoloso inquinamento dei mercati bancari e finanziari, comprendendo società di interesse strategico per il sistema produttivo e economico nazionale”.

Il sistema è assediato da due parti: da un capitale finanziario che vuole “farsi” le sue banche, e da una massa di liquidità che vuole impadronirsi dei grandi gruppi. Secondo i dati della Direzione nazionale antimafia, la gestione di attività imprenditoriali: investimenti immobiliari e acquisizione di banche e finanziarie, rappresenta già il business più proficuo con il 30% del business mafioso subito dopo il traffico di droga (35%).

Così – in nome del profitto – ricchezze fittizie, quelle dei future, dei fondi, dei derivati si intrecciano a ricchezze “sporche” attraverso fiumi di liquidità velenosa e di accumulazione iniqua, moltiplicando bolle assecondate dalle autorità finanziarie, incrementando l’instabilità e la sfiducia. Non c’è nulla di naturale in tutto questo, non si tratta di una fisiologica mutazione del mercato, nemmeno di un costo inevitabile dello sviluppo e della globalizzazione. Anzi l’esplosione finanziaria e i suoi artefici, il conseguente indebitamento, le speculazioni creative, congelano la crescita, secondo le forme parossistiche e i processi autoespansivi e autolegittimati di una accumulazione senza fine e senza fini, se non quelli del disordine, della turbolenza, della sopraffazione.

Non c’è via virtuosa al potere, non c’è strada morale che conduca alla ricchezza. Alcuni in questa fase del capitalismo ravvisano un’indole di autodistruzione, altri vi leggono una pulsione di morte, che vi è comunque qualcosa di tremendamente e oscuramente violento, esiziale e fatale in questa plutocrazia che combina forme convenzionalmente accettabili e forme apertamente illegali in un’unica casta, che usa e sfida apertamente i governi con tecniche di contro-stato o con le sentenze delle agenzie di rating. Un libro del 1926 si intitola “La fine del laissez-faire”, il suo autore viene di volta in volt indicato come profeta disarmato o visionario corresponsabile. Mi limito a raccogliere la sua raccomandazione, non lasciamoli più fare.

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