di Giuseppe Bonanni
Quanti sono i precari nel mondo? Chi sono e come possono essere definiti? Il precariato è una classe come il proletariato industriale? E’ una grande minoranza che presto diventerà maggioranza? E cosa chiedono i precari globali alle istituzioni democratiche e alla politica? Infine, andando alla radice, in quale fase dello sviluppo capitalistico nasce quella condizione di lavoro e quindi di vita definibile precariato? Sono queste alcune delle domande che stanno alla base dell’interessante libro del sociologo inglese Guy Standing, Precari. La nuova classe esplosiva (il Mulino, pp.304, euro 19).Negli ultimi anni, la condizione dei precari è stata rappresentata e descritta in film, inchieste televisive, a teatro; sono stati pubblicati libri autobiografici che narrano la vita precaria. Eppure, questo fenomeno che accumuna tutti i paesi industriali fatica ad essere compreso e soprattutto non riesce ad avere il giusto peso nel confronto politico. Il precariato, analogamente al proletariato, è una classe in sé. Vale a dire che gli uomini e le donne che ne fanno parte appartengono ad un gruppo sociale con caratteristiche comuni. Quali? Standing risponde a questo domanda in negativo. Elenca cioè sette garanzie di sicurezza sociale del “lavoro dignitoso” che nel corso del Novecento hanno permesso alla classe operaia, o proletariato industriale, di acquisire uno status di “cittadinanza industriale”. Vediamo in breve quali sono. Opportunità di lavoro per ottenere un reddito dignitoso. Sicurezza del posto che significa protezione contro licenziamenti arbitrari e continuità occupazionale. Sicurezza del ruolo e opportunità di mobilità. Sicurezza per la propria salute. Valorizzazione delle proprie competenze. Garanzia di un reddito fisso e contrattabile agganciato a meccanismi di sicurezza sociale. Diritto alla libera rappresentanza per poter difendere le condizioni complessive di lavoro. E’ proprio questa rete di garanzie che manca ai precari. Sono lavoratori diminuiti, costretti ad una condizione di “non cittadinanza”. I profili sono noti. Nel precariato ci sono la gran parte dei lavoratori “temporanei”, indeboliti nel reddito e nelle relazioni interne all’impresa: cocopro, occasionali, partite iva. Anche il lavoro a tempo parziale, quando non è una libera scelta, ma una imposizione del sistema economico, è una forma precaria di lavoro, così come lo sono gli stages pre e post universitari.
Milioni di persone, nei più diversi paesi, negli ultimi trent’anni, sono state precarizzate, vivono cioè una condizione nella quale, giorno dopo giorno, sei sottoposto a ” pressioni e situazioni che conducono a un’esistenza precaria, incentrata sulla sola dimensione del presente, deprivato di una solida identità o del senso di realzzazione che normalmente si ricaverebbe da un lavoro”. A conferma di come la precarizzazione abbia ormai sconvolto l’intero sistema lavorativo tradizionale, anche nella grande impresa, Standing cita il caso limite del Giappone con la definitiva scomparsa del salaryman, il lavoratore che nasceva e moriva in un’unica impresa verso la quale era legato da un rapporto di dedizione assoluta.
Ma nella precarizzazione del lavoro industriale rientra a pieno titolo anche la drammatica realtà degli operai cinesi della modernissima Foxconn (fornitrice Apple, Motorola etc) che si sono ribellati a condizioni semischiavistiche di lavoro. Possono infatti rientrare per molti aspetti nel precariato: sono giovani (moltissime le donne) provenienti dalle zone rurali, migranti interni alloggiati in dormitori annessi alla fabbrica, privi di rappresentanza, che lavorano in condizioni tali di sfruttamento che non reggono per più di due o tre anni. Poi tornano nei villaggi di provenienza.
I casi descritti di precarizzazione di tutte le forme di lavoro sono moltissimi e coprono tutto il mondo industriale. Nell’insieme, scrive Standing, emerge una classe con un’identità instabile, incerta, più simile a quella dei migranti, l’altro grande esercito di lavoratori che ingrossano le file del precariato, che a quella della tradizionale classe operaia. Una identità fatta di ansie e di insicurezze, che non riesce a controllare le tecnologie che maneggia nel lavoro e nella vita. Per questo, richiamandosi a Marx, Standing scrive che il precariato è una classe in divenire, non è una classe per sé. Non riesce cioè a produrre una continuativa iniziativa rivendicativa e politica per poter migliorare le proprie condizioni. Ed è per questo che questa classe può essere definita esplosiva, o meglio pericolosa – visto che il termine inglese è dangerous, come ha osservato Luciano Gallino nella sua recensione su “Repubblica”. Una classe che non vede futuro e accumula rabbia può passare al disimpegno politico, all’ intolleranza, può cercare capri espiatori ma può anche produrre proteste, opposizione. Ed è questa la sfida, innanzitutto culturale. Quello che serve è “una politica per il paradiso”, un insieme di proposte emancipative per tutti i precari, una politica nuova “dal carattere lievemente -ma fieramente- utopistico”. La crisi drammatica della globalizzazione neoliberista lo impone: si devono ripensare i diritti di cittadinanza, rilanciare l’istruzione liberandola dalla mercificazione, definire forme di reddito di cittadinanza, pensare nuove forme di contrattazione per attività socialmente rilevanti, affrontare le questioni del lavoro con una visione globale, pensare nuove forme di rappresentanza. Una sfida difficile, impellente: quali saranno gli attori politici che la raccoglieranno? (nuovosoldo)
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